A sorpresa, a un anno dal finale di The Good Fight, Robert e Michelle King si sono voltati verso noi spettatori per dire: “Just one more thing“, procedendo nell’annunciare la produzione di una nuova serie: Elsbeth.
Nonostante viviamo in un’era in cui gli spin-off si propagano in ogni direzione dello spazio-tempo seriale, è comunque sorprendente il fatto che una serie – televisiva, aggiungerei, data l’epoca di appartenenza – come The Good Wife abbia originato quello che con Elsbeth possiamo considerare a tutti gli effetti un vero e proprio universo narrativo. Dopo The Good Fight, incentrata sul personaggio di Diane Lockhart diventata partner di una firm all black di Chicago, ci siamo ora spostati a New York per seguire le avventure di Elsbeth Tascioni: tra i personaggi ricorrenti, uno dei più amati e attesi. Con la sua aria stralunata e l’aspetto zuccherosamente svampito, Elsbeth è quel tipo di avvocato che, nella sottostima generale, mette sempre tutti nel sacco dimostrandosi letale tanto quanto chi è subito e facilmente inquadrabile come uno squalo in doppiopetto.
I coniugi King hanno sempre avuto un particolare talento nelle scelte di cast, non solo nel trovare la persona giusta che potesse abitare il personaggio assegnato ingenerando nello spettatore il desiderio di vederne di più, ma anche l’acume di individuare l’interprete inaspettatamente giusto sfidando gli dei del typecasting. Gli esempi più lampanti sono senz’altro Matthew Perry e Michael J. Fox, rispettivamente nei ruoli di Mike Kresteva e Louis Canning, e per motivi analoghi.
Entrambi gli attori hanno raggiunto una condizione che non sarà mai alla portata di tante star di prima grandezza: Perry e Fox sono molto più che attori di successo, per il pubblico sono due persone di famiglia, qualcuno a cui volere bene come a un figlio, a un fratello, da augurarsi come genero.
L’immagine del compianto Matthew Perry è indissolubilmente legata a Chandler e al suo brillante e disarmante sarcasmo, a protezione di una natura sensibile, accompagnato da un’ampia e nevrotica gestualità che nasconde e sottolinea al tempo stesso l’ansia di essere smascherato nella sua fragilità. In The Good Wife non c’è alcuna traccia di tutto questo: i King hanno dato a Perry la possibilità di mostrare il suo talento nell’esplorare l’altra metà della Luna per dar vita a un procuratore cinico, spietato ed estremamente controllato, un personaggio talmente detestabile da indurre gli spettatori a chiedersi come sia stato possibile amare l’attore in altri ruoli. Puro talento.
Analogo discorso per Michael J. Fox che in alcuni momenti della sua carriera ha tentato di evadere dai personaggi alla Marty McFly/Alex Keaton, prima con con Vittime di Guerra di Brian De Palma e poi con Le Mille Luci di New York, ma che per tutti è rimasto l’attore dal faccino pulito, le smorfiette simpatiche e la battuta pronta. Anche Fox, per i King, compie una rovesciata trasformandosi in un serpente a sonagli, un doppiogiochista che non esita un attimo a usare biecamente la sua disabilità per tornaconto personale. Anche qui, un’autentica sorpresa riuscire a detestare Fox.
Arriviamo quindi a Carry Preston e la sua Elsbeth Tascioni. È evidente come sia stato divertente giocare con aspettative e stereotipi, in questo caso più dei personaggi stessi che del pubblico, prendere un’attrice dall’aspetto mite e gentile, la vocina garbata, una che insomma non suscita minimamente l’idea del pericolo, premere sull’acceleratore di queste caratteristiche, per poi arrivare a scoprire come il gattino indifeso azzanna la preda come la tigre del Bengala.
In The Good Wife troviamo diversi personaggi potenzialmente spendibili in serie dedicate, ma Tascioni è stata un azzardo. È vero che il suo ruolo è uno dei più riconoscibili, ma anche quello che più di tutti rischiava la deriva macchiettistica risultando troppo leziosa, troppo bizzarra, troppo di tutto.
Dopo due serie legatissime al commento politico e alla stretta attualità, che ormai viaggia a una velocità sempre meno agguantabile da una writing room, la seconda sfida è consistita nel fare qualcosa di diverso dal legal politico per offrire un prodotto che risultasse avvincente ma in modo spensierato, giocoso. La prima sfida, giocare sull’improbabilità di Elsbeth senza strafare, è senz’altro vinta, la seconda è ancora nel limbo dello “staremo a vedere” soprattutto perché la serie è dichiaratamente un omaggio/calco a Colombo e confrontarsi con un illustre predecessore del genere richiede qualcosa di più che un buon lavoro.
Con uno escamotage narrativo, non vediamo Elsbeth nella sua capacità di avvocato, ma come una sorta di investigatrice a cui è stato assegnato il compito di monitorare il corretto svolgimento delle indagini del dipartimento di polizia di New York. Esattamente come in Colombo, la struttura narrativa non è quella del classico whodunnit, ma a è piuttosto un “how to catch them“. Fin dai primi minuti di ogni puntata, infatti, viene immediatamente mostrato chi è l’assassino e quali sono le motivazioni che lo spingono verso il crimine ma, come nel caso del leggendario tenente, anche Elsbeth è dotata di un senso per il dettaglio e per le minuzie che la mettono subito sulla buona strada mentre a noi non resta che goderci il percorso fatto di intuizioni, strategie e depistaggi attraverso cui la protagonista arriva a mettere alle strette il colpevole di turno.
Senza la leva della curiosità di scoprire l’identità dell’assassino, va da sé che agli autori non resta che darsi da fare per rendere interessante il classico gioco del gatto con il topo, ma affinché questo accada, gli avversari dovrebbero non solo essere all’altezza come avversari, ma anche avere anche una motivazione forte a spingerli verso il delitto visto che non parliamo mai di criminali, ma di persone comuni pronte a compiere il massimo gesto di efferatezza per ottenere o evitare qualcosa per loro di capitale importanza.
Il pilot riesce più che dignitosamente a realizzare tutto questo, ed è puro Colombo anche nella scelta dell’avversario, un produttore teatrale (Stephen Moyer) alla cui presentazione viene dedicata una cura che negli episodi successivi non ritroveremo più. Da notare l’ironia di come sia proprio un uomo di teatro a vedere oltre la maschera di inoffensività di Elsbeth congratulandosi con l’avvocata per l’abile messa in scena che inganna tutti. Come nota Robert King:
We realized what’s fun about “Columbo” is him being underestimated and him kind of not being able to control how smart he was.
E questo vale anche per Tascioni che declina a modo suo il famoso “One more thing” di Colombo, la frase che per il colpevole diventa il primo indicatore per capire che l’improbabile investigatore sta per stringergli il nodo della legge intorno al collo.
Nel pilot Robert King commette però un errore abbastanza amatoriale: nel corso dell’episodio viene paventato più volte l’eventuale arrivo di Cary Agos, il personaggio che in The Good Wife è stato protagonista dell’arco narrativo di crescita più incisivo e soddisfacente dell’intera serie. Non si introduce un protagonista, sia al nuovo che al vecchio pubblico, mettendolo nella condizione di desiderare di averne un altro.
La serie ha un’impostazione da procedurale, con un’apertura verso l’orizzontalità che la rende ossimoricamente una vecchia novità in un panorama seriale governato dalle serie streaming concepite come film divisi in otto, dieci parti. Questa è una scelta che paga sulla lunga distanza perché dà modo di familiarizzare con i personaggi, lasciarsi fidelizzare dall’appuntamento settimanale, prendere confidenza con le dinamiche e poi, eventualmente, essere disposti a quel tipo di investimento che la serializzazione richiede.
Carry Preston ormai indossa l’abito di Tascioni come una seconda pelle, ma nessuno del resto del cast si fa notare, solo Wendell Pierce è una spanna sopra il dimenticabile. A una manciata di episodi dall’inizio la serie naviga tra pregi e difetti che potrebbero cristallizzarsi: al momento non c’è stato nessun antagonista degno di nota, i personaggi di supporto potrebbero sparire dall’oggi al domani senza lasciare traccia, la trama orizzontale appena accennata non promette ancora di essere foriera di risvolti straordinari, ma la verticalità degli episodi finora ha regalato un piacevole divertimento. L’augurio è che Elsbeth la serie finisca con l’assomigliare ad Elsbeth la protagonista e che, dopo averci mostrato la rassicurante facciata da procedurale, ci spiazzi con trovate argute e geniali. Intanto CBS ha rinnovato per una seconda stagione.
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