Una serie tv il cui plot gira intorno al misterioso omicidio di una giovane ragazza è costretta a mettere in conto che presto o tardi si troverà irrimediabilmente a fare i conti con un ingombrante paragone, così alla AMC devono avere deciso di abbandonare ogni indugio e poggiare la campagna pubblicitaria di The Killing sulla tag line “Who killed Rosie Larsen?” di modo che il rimando a Twin Peaks di Lynch sbocci anche nella mente dello spettatore più distratto. Parrebbe audacia, azzardo, invece sotto c'è altro.
The Killing in realtà ha molto meno in comune con Twin Peaks di quanto la sua promozione lasci intendere, al di là di qualche citazione. Lontano dalle suggestioni -visive e non- di Lynch, la serie AMC si propone come un classico whodunit, in cui la caratteristica che per prima si nota è un ritmo lento e ponderato, in cui in personaggi paiono galleggiare più che muoversi. La fotografia è la principale artefice di questa atmosfera e dà vita a un gioco di contrasti tra i toni plumbei di una Seattle perennemente oppressa dalla pioggia e la forte carica emotiva delle scene che dipingono le situazioni di quotidiano dolore cui sono costretti i genitori della giovane vittima.
La narrazione, tuttavia, non insiste mai smisuratamente sull'aspetto psicologico della vicenda ed evita eccessi di morbosità attraverso il ricorso di un triplice punto di vista: oltre al lato familiare, infatti, viene esplorato anche quello investigativo, per mezzo dei due detective della polizia di Seattle Linden e Holden, e quello politico, a causa del coinvolgimento nel delitto di un'automobile utilizzata dai membri della campagna elettorale di un candidato sindaco. Il contesto politico per ora rappresenta l’anello debole, ma è lecito attendersi che il suo peso vada ad aumentare col passare degli episodi e che la risoluzione del giallo passi proprio da questa sottotrama.
Per quanto possa apparire strano considerate le premesse, la fisicità rappresenta il migliore pregio della serie, favorita da scelte in fase di casting di rado così azzeccate. La presenza scenica di Brent Sexton si esprime alla perfezione nei panni dell'uomo che ha saputo sostenere sulle sue spalle il peso di una famiglia costruita col sudore del duro lavoro e i soldi del lavoro sporco. Il volto vacuo di una imbruttita Mireille Enos e quello di Joel Kinnaman, suo compagno nel ruolo di detective, sono il manifesto di una serie che concede poco all'estetica e preferisce esprimersi attraverso sguardi spesso tetri e algidi come la vicenda che narra e i luoghi che la ospitano.
Sorprendentemente, invece, la vera mancanza di The Killing è riconducibile al lato creativo dell'opera, e la cosa non può passare inosservata pensando a quel “Here stories matter”, fiero motto dell'emittente che la trasmette. Al di là di qualche luogo comune, l'amica che soffre il confronto o il giovane poliziotto troppo rude, peccati veniali su cui è possibile sorvolare, l'eccessiva adesione a Forbrydelsen, serie danese di cui è remake, sfiora in alcune situazioni il mero ricalco. Il pilot delle due serie è sostanzialmente indistinguibile, mentre col prosieguo della trama gli episodi iniziano a differenziarsi per alcun dettagli, per quanto si possa ancora assistere a diverse scene riprese interamente dall'opera originale, dalle inquadrature alle linee di dialogo, travisando forse troppo il concetto di remake. Si capisce a questo punto la volontà di suggerire un paragone forzato, evitando così un confronto con l'ispirazione che avrebbe suscitato non pochi imbarazzi.
Non è stata però la mancanza di originalità a smorzare l'entusiasmo con cui la serie era stata accolta all'annuncio, quanto piuttosto il ritmo anomalo per una serie d'investigazione e il ricorso a semplici taccuini e interrogatori. Curiosamente, gli stessi difetti che vennero imputate a Rubicon, intrigo internazionale dell'estate scorsa targato AMC, riscoperto oggi da critica e pubblico proprio come metro di paragone positivo per The Killing.
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Questa recensione è tratta da Players 05, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.
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