Tangerinn è un gioco di parole. Tangerinn è un libro d’esordio, quello di Emanuela Anechoum, molto potente. Tangerinn è infine una locanda, un bar che vede il mare; un luogo che Mina ha realizzato solo da adulta essere frequentato quasi esclusivamente da immigrati, perché nei luoghi degli immigrati la gente comune non vuole andarci, e solo dopo essere stata costretta a ripensarci a causa della morte del padre Omar.
La notizia l’ha raggiunta a Londra, mentre era intenta a trascinare la propria esistenza nei panni di feticcio multiculturale della co-inquilina Liz: borghese, bianca, sempre molto attenta a non discriminare mai, ma soprattutto con un sacco di soldi in tasca con cui offrire vini bio, vacanze yoga e altre attività ad alto tasso di instagrammabilità. La morte di un genitore è un evento con cui chiunque è costretto a fare i conti, ma per Mina ha prima di tutto un risvolto pratico. Quel risvolto ha un nome, Tangerinn ancora una volta, il bar che il padre vorrebbe che ora le figlie gestissero insieme.
Il ritorno in Italia costringe Mina a immersi nuovamente in quella vita che aveva chiuso fuori dalla bolla londinese, con la religiosità della sorella, con la madre Berta che forse una madre non è stata mai e infine, soprattutto, con la propria identità. Chiedersi chi si è davvero e cosa si voglia fare della propria vita è un passaggio naturale, un tempo forse obbligato, a cui la generazione dei Millenial (la mia generazione, non c’è nessun dito puntato, per carità) cerca di rispondere con un’eterna adolescenza di responsabilità opache: un altro dei privilegi che a Mina non è concesso godersi.
O forse, peggio ancora, Mina ha potuto illudersi per un certo periodo che toccasse anche a lei nonostante l’origine proletaria e il colore della pelle, che le fosse infine concesso un passaggio facile, mediato attraverso lo sguardo e il patrimonio di Liz, i discorsi inclusivi snocciolati quasi a memoria di fronte a costose bottiglie di rosso, i viaggi esotici, l’impegno politico che dura il tempo di una story su IG. “Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx.” confessava un giovanissimo Stefano Accorsi nel Radiofreccia di Ligabue, ma nel caso di Mina quel “te stesso” è una definizione particolarmente complessa.
C’è una Mina che pensa che suo padre l’Omar l’avrebbe voluta più simile alla sorella Aisha, e quindi più legata alla tradizione e all’Islam, ma sa lei stessa che è ingiusto pensarlo, che Omar con la sua vita avventurosa alla costante ricerca di un domani possibile ha sempre capito la sua ricerca di un altro pezzo di mondo. Ma c’è anche la Mina che è disposta al mimetismo per accettarsi, per trovare non dico un proprio posto nel mondo, ma un angolo in cui non sentirsi costantemente fuori luogo. Poi c’è la Mina arrabbiata col mondo intero e con Berta, a cui deve fare da madre, ma soprattutto con se stessa.
In un suggestivo accavallarsi di sensazioni visive, tattili e olfattive, l’odissea alla ricerca del sé di Mina si intreccia nelle pagine con la rievocazione della gioventù di suo padre Omar, o quanto meno la versione tramandata dai racconti di Omar (forse coloriti ed esagerati?). Nel percorso circolare di Mina cher lascia casa alla ricerca di sé, destinata a trovarsi solo compiendo il percorso inverso, emergono suggestioni autobiografiche dell’autrice, che tali tuttavia restano, sul quell’affascinante confine confine tra realismo e verosimiglianza in cui si muovo i racconti.
Quello che invece emerge chiaro è il punto di vista di un’autrice che può offrire uno sguardo sulla diversità (e sui tentativi attraverso cui la società occidentale sta faticosamente tentando di assorbirla tra i suoi valori) diverso da quello egemonico. La fissazione per il politicamente corretto di Liz nelle prime pagine ha per contraltare la sostanziale estraneità al tema mostrata da Mina, che condizionerà tutto il successivo rapporto tra le due. Per Liz, Mina è distintivo da portare in giro, la certificazione in carne e ossa della propria apertura mentale, bizzarramente caratterizzata da regole così ferree da essere diventate più importanti della voce del discriminato. Per Mina invece quelle istanze, per quanto condivisibile, si muovono in parallelo ai propri bisogni primari, su tutto quello dell’autoaffermazione, a cui la società in cui vive non ha ancora dato ascolto.
Sarebbe ingeneroso però ridurre Tangerinn al rapporto tra la sua autrice e i temi del libro o alle sovrapposozioni biografiche con Mina (per altro mai esplicitate dall’utrice stessa). Ben più interessante è la qualità della scrittura di Emanuela Anechoum, fresca ed evocativa, che si accompagna alla capacità di tratteggiare situazioni quotidiane ammantandole di querl fascino esotico proprio della letteratura (forse solo il ritorno di Mina a Londra mi è parso meno riuscito nel complesso). Tangerinn è dunque un esordio potente nella sua delicatezza, certificato per altro dalla seconda ristampa arrivata sugli scaffali in questi giorni: un successo meritato tanto per la sua autrice Emanuela Anechoum, che ha saputo cogliere ottimamente l’occasione per dimostrareil proprio talento, quanto per Edizioni e/o, che quel talento ha saputo riconoscerlo (Anechoum fa parte della redazione di e/o) e promuoverlo.
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