Sono stata molto tentata di aprire questa recensione con lo screenshot di una chat avvenuta qualche giorno fa tra me e Claudio, il mio editor su Players. Questo scambio comincia mentre sono in coda fuori da un supermercato preso d’assalto durante l’epidemia di COVID-19. Davanti a me si profila un’ora abbondante di attesa, per cui apro un’app sul cellulare e comincio a leggere Docile, un romanzo fantascientifico uscito da qualche giorno per il giù grande editore statunitense del comparto. Copertina dai colori pastello con uomo in smoking dal volto cancellato da un tratto bianco e un blurb accattivante: There is no consent under capitalism. Basta leggere la sinossi per capire che Docile promette sesso: tanto, controverso, acceso dalle tinte forti della riflessione politica sociale sul capitalismo e la sua tentacolare influenza su ogni ambito – pubblico e privato – della società.

Più tardi ho scoperto che io e l’autore Kellen Szpara (al suo romanzo esordio) abbiamo parecchie cose in comune, tra cui il fastidio che proviamo per la cronica assenza della dimensione sessuale nella letteratura di genere, datata e contemporanea. Non solo: entrambi siamo cresciuti negli anni ’90 e abbiamo consumato (il termine non è casuale) centinaia di fanfiction.

Torniamo a me appoggiata sul carrello in coda fuori dal supermercato che leggo le prime pagine di Docile e sbotto: ma è una slave fic! Mentre quelli intorno mi guardano con palpabile ansia, scrivo subito a Claudio, comunicandogli la mia costernazione [posso confermare, NdClod]. Qualche minuto dopo aggiungo: Il protagonista si chiama Elisha. È palesemente una slave fic. 480 pagine più tardi posso dire di averci visto giusto: per la sottoscritta non è un romanzo fantascientifico, mancando dei presupposti per essere tale. A essere generosi è un pessimo titolo SFF, ma un’ottima slave fanfiction. Come romanzo è problematico sotto così tanti aspetti che si ha l’imbarazzo della scelta da dove cominciare a criticarlo. Leggere Docile non è un’esperienza gratificante, perché getta fosche ombre su futuro del genere SFF e sulle strade editoriali che ci stanno conducendo laggiù, per non parlare della luce sotto cui pone chi legge abitualmente questi contenuti che per loro natura sono amatoriali, di nicchia, pensati da e per fan. Tuttavia Docile è un romanzo strepitoso da recensire per me, che sono una lettrice di fantascienza, ho sfogliato il mio monte di fanfiction di genere slave e non, mi sono sciroppata quasi tutti i romanzi adattati da fanfiction e divenuti casi letterari. Da Rainbow Rowell a C.S. Pacat, non mi sono fatta mancare niente. Nel 2019 ho assistito con lieve sgomento al dilagare dell’ibridazione tra fanfiction, contenuti queer e produzioni SFF.

Ora arriva questo Docile, che è ai miei occhi è una menzogna editoriale. Sono allibita dall’irresponsabilità con cui Tor metta sul mercato in una confezione tanto accattivante quella che è una slave fiction, ovvero un racconto amatoriale (basato su personaggi esistenti o creati da zero, come nel caso del romanzo) incentrato sulla relazione romantica e sessuale tra un dominatore e un dominato, che diviene suo schiavo. Questo è un sottogenere, anzi una nicchia, di un filone a tematica queer/yaoi che dir si voglia del mare magnum delle fanfiction, quindi già di per sé è tutt’altro che rappresentativo della lettura media di una persona che si proclama consumatrice di fanfiction. Persino tra le lettrici (in prevalenza di genere femminile) è diffusa la consapevolezza della problematicità delle storie di questo particolare filone. Il che non ferma nessuno dal scriverle o dal leggerle, ma rimane e si evolve il dibattito su questi scritti che mirano a fornire un contenuto erotico che si trasforma nella romanticizzazione di uno stupro o quantomeno sul sesso non consensuale. Almeno uno dei personaggi è uno schiavo e questa è la regola numero 1 della slave fiction.

Qui entra in gioco la cornice SFF: inventare un mondo fantastico o un futuro distopico permette di creare le premesse ideali per cui la schiavitù esiste, è legalizzata e in qualche modo così naturale da discolpare in parte lo schiavista. Il punto infatti è quasi sempre che, dopo gli intercorsi più o meno estremi tra i due personaggi si sviluppi una storia amorosa di natura romantica e reciproca.

Torniamo a Docile, ambientato in una versione futuristica imprecisata degli Stati Uniti in cui i debitori vengono sbattuti in prigione e marchiati a fuoco. Per scappare a generazioni di debito non saldato c’è un solo modo: vendersi come schiavi – sessuali e non – ai ricchissimi che possono estinguere i debiti altrui. Alla base del sistema c’è la Dociline, una potente droga che permette di rendere il futuro Dociledocile, appunto. Piccolo appunto: la parola schiavitù viene usata due volte nell’intero libro nell’accezione di debt slavery. La Dociline che rende schiavi, pardon docili, rimuove le inibizioni e predispone a obbedire a ogni ordine del padrone e a trarre piacere dal farlo. Una volta concluso il periodo concordato di schiavitù e rimossa la droga dal sistema sanguigno del soggetto, l’ex debitore torna a casa privo di memorie, un po’ intontito e libero.

La madre del nostro Elisha però non è mai uscita dal stato catatonico in cui la Dociline getta il malcapitato debitore. Per questo quando decide di vendersi per salvare la sorellina e la famiglia, Elisha lo fa decidendo di avvalersi del diritto di non venire drogato. Peccato che ad acquistarlo sia l’erede dei Bishop, Alex III, giovane scienziato e mecenate che sta sviluppando un nuovo prototipo della Dociline. Sulla droga è stato costruito l’impero economico della famiglia di cui Alex è il rampollo. Ricco, arrogante e preciso, Alex non lo vorrebbe neppure uno Docile al suo fianco: lui è uno scienziato brillante, tutto lavoro e successo, non ha tempo per le relazioni. Tuttavia il padre Alex II (ruolo già prenotato per Charles Dance nello sventurato caso Docile diventi un film) lo costringe davanti al consiglio di amministrazione a prendere un compagno di sorta o a rinunciare alla sua scalata al successo aziendale.

Alex decide di tentare di piegare la volontà di Elisha senza Dociline, addestrandolo come si farebbe con un animale, a suon di punizioni ma anche premi e concessioni, da persona attenta e accorta qual è. Queste sono le premesse di Docile, un romanzo che suona raggelante per chiunque non sia familiare con il suo mondo di riferimento, ma sin troppo prevedibile per chi su Archive of Our Own (il più noto database mondiale di fanfiction) qualche serata l’ha spesa.

Per la prima metà Docile è in tutto e per tutto una fanfiction e non manca nessuno degli stereotipi del genere: Alex fa il lavaggio del cervello ad Elisha ma al contempo s’innamora di lui, ricambiato da quello che in teoria è una vittima ma che in qualche modo rimane la metà di una coppia di una storia intrinsecamente sentimentale. Il tono di Docile è quello: non si respira angoscia, terrore o violenza, perché tutto è filtrato dalla lente romantica, sexy e persino estetizzante di una storia d’amore che sboccia pian piano. Il romanzo è più interessato a descriverci la lussuosa casa di Alex, la moda tutta colori pastello e flou per i completi da uomo di questa futura America, trascurando questioni di fondo gigantesche quali: come è possibile che in uno stato in cui la schiavitù è una questione così centrale, problematica e critica si riesca a renderla di nuovo legale? Perché marchiare a fuoco (un processo antiquato, pericoloso per la salute e dolorosissimo) un debitore e la sua famiglia quando puoi tatuarlo o inventare una diavoleria tecnologica futuribile simile? Dove sono finiti tutti gli afroamericani e i latini? A ben vedere dove è finito il resto degli Stati Uniti e del mondo oltre Baltimora, città in cui si svolge gran parte del romanzo e che sembra impermeabile a ogni influenza esterna?

Questi sono solo alcuni esempi della cattiva scrittura di Docile, che rende ancor più imperdonabile la campagna pubblicitaria con cui Tor lo descrive come un romanzo di denuncia sociale, che riflette e critica il capitalismo odierno. È offensivo che si presenti Docile come un romanzo di riflessione sulla condizione di lavoratori dell’industria del sesso per poi ritrovarsi una storia di stampo romantico che non manca nemmeno uno degli stilemi delle slave fic, dalle manette d’oro alla scena in cui il protagonista Elisha viene inavvertitamente drogato così da poterlo rendere entusiasticamente partecipe laddove prima era ritroso.

Il punto di svolta è la presa di consapevolezza di Elisha e Alex dei loro reciproci sentimenti e delle premesse malsane da cui la loro relazione è nata. A questo punto Elisha ha subito un tale lavaggio del cervello da non poter vivere senza Alex, che comincia a rendersi conto di quanto sia marcio il sistema che la sua famiglia alimenta.

Se nella seconda parte del romanzo l’autore si dedicasse alla decostruzione, anzi, alla demolizione delle premesse malsane di riferimento allora Docile avrebbe un senso, pur avendo una presentazione truffaldina e descrivendo sin troppo entusiasticamente l’oggetto di denuncia. Se. Ogni tanto Szapra quest’idea tenta anche di metterla in pratica, in teoria. Infatti nella seconda parte Docile si trasforma in un legal drama che esplora le criticità del sistema basato sulla Dociline e fa scoprire a Elisha il mondo del sesso basato sul consenso e sulla libera scelta. Il problema è che, narrativamente parlando, la prima parte è molto più riuscita e avvincente della successiva. Nella parte finale Docile suona un po’ come la lezioncina insopportabilmente moraleggiante su come ci si bacia e su chi chiede cosa e quando. Non è che manchino lettori a cui le suddette informazioni tornerebbero assai utili ed educative, ma è il modo in cui vengono propinate a renderle indigeribili. La sottoscritta rimembra ancor le impacciatissime lezioni di educazione sessuale che qualche scuola media molto coraggiosa della provincia italiana tentava di fare ad inizio Millennio e Docile, facendo sfoggio di coppie aperte e poliamori, non è che vada molto più in là. La discriminazione contro i gay è scomparsa nel nulla, non si capisce bene come, sostituita dalla schiavitù sessuale. Mh.

Quel che è peggio è che c’è una scelta praticamente obbligata per Docile per salvare sé stesso: rinnegare l’amore tra i protagonisti, postulando chiaramente che ciò che c’è stato tra Elisha e Alex è così falsato dall’abissale disequilibrio di potere tra i due che non potrà mai uscire dal territorio dell’abuso. Szpara invece non riesce proprio a lasciare andare la storia d’amore. Saltellando dal punto di vista di Elisha a quello di Alex, tira fuori dal cappello persino una graduale presa di consapevolezza e successiva redenzione per lo schiavista e apre uno spiraglio per il suo futuro con Elisha. Mh, no.

Se Docile è così tremendo non così colpa di Szpara, bensì del sistema editoriale statunitense, che ormai da un decennio sta inglobando acriticamente il mondo della scrittura amatoriale, traghettandola in quello professionistico quasi senza filtri o modifiche. Szpara anzi scrive discretamente, costruisce uno scenario vagamente plausibile intorno ai suoi protagonisti e maneggia con una certa destrezza la scrittura in generale, oltre che ad essere davvero abile a usare gli stilemi della slave fic.

La trilogia de Il principe prigioniero di C. S. Pacat – fanfiction a tema schiavitù ambientata in un mondo fantastico vagamente orientaleggiante e approdata in libreria dopo l’enorme successo raccolto online – è decisamente più bambinesca, meno ambiziosa per premesse e risultato finale. Pubblicata in Italia da Triskell edizioni, questo titolo è una comparazione quasi d’obbligo con Docile. Il racconto di Pacat è a sua volta problematico, ma ha l’enorme pregio di presentarsi per quello che è: una fanfiction raccolta in tre volumi, i cui collari d’oro e afrodisiaci inavvertitamente assunti da un protagonista rimangono iscritti nella volontà di allietare il pubblico di riferimento.

Docile invece è un romanzo che nelle parole dell’autore “riempie il vuoto che sentivo nella sezione dedicata alla fantascienza della mia libreria di fiducia: quello creato dalla mancanza di contenuto sessuale gay nei romanzi SFF”. Qui il sesso queer c’è, indubbiamente. Quanto poi corrisponda a ciò che un lettore gay vorrebbe trovare nel suo romanzo tipo, è tutto da vedere: statisticamente i dati suggeriscono che questo tipo di contenuti sono consumati in prevalenza da donne eterosessuali. Alcuni lettori queer apprezzano il genere, ma altri trovano che la rappresentazione delle relazioni omosessuali sia feticizzata a tal punto da rendere i contenuti offensivi.

Quel che non c’è è la fantascienza, o quanto meno quella che un tempo era la fantascienza. Ripiena di razzismo e sessismo, che ahimé ancora qualcuno rimpiange, ma anche concentrata a immaginare un futuro nella sua complessità e fino alle sue estreme conseguenze, per sfidare il lettore con un’idea nuova, tentando di mettere in crisi quelle esistenti. Gli scrittori di fantascienza dell’epoca d’oro erano per buona parte persone di scienza, che consideravano la scrittura un passatempo in cui mettere alla prova idee spesso nate in laboratorio o nelle aule delle università. Quando la letterarietà è diventata parte importante e integrante del genere, gli scrittori di fantascienza hanno tentato e spesso sono riusciti ad essere visionari e profeti, anticipando problemi del futuro, illuminando il presente sotto una nuova prospettiva e, incidentalmente, scrivendo romanzi bellissimi, talvolta anche capolavori e capisaldi del pensiero moderno.

La fantascienza commerciale oggi è percorsa oggi da due nuove correnti: quella rappresentativa di minoranze e quella che porta elementi nati nel contesto della scrittura amatoriale in campo professionistico. Lungi da me lamentarmi di fronte a un genere che spesso prima degli altri è diventato orgogliosamente inclusivo e rappresentativo, intuendo nuove tendenze editoriali e gusti del pubblico. Il problema è il modo in cui lo fa: acritico, elementare, volto a rinforzare un nascente status quo e poco più. Spesso manca la sfida, l’idea. La fantascienza stessa?

La fantascienza (e il fantastico) stanno diventando un paravento, un gusto esotico, uno sfondo grazioso e appena abbozzato per allestire una storia che risponda esattamente alle aspettative del pubblico. Da lettrice mi aspetto che fantascienza spinta dalle grandi case editrici di genere faccia domande che talvolta nemmeno so di avere, non che dia risposte a bisogni di cui un certo tipo lettore è ben consapevole. Questione di punti di vista? Forse. D’altronde la fantascienza, come ogni altro genere letterario, è soprattutto di chi la legge e la scrive. Non è un caso se, da L’attraversaspecchiDocilestiamo leggendo una generazione cresciuta con l’imprescindibile riferimento verso Harry Potter, che Dabos e Szpara citano come lettura formativa e modello. Va bene così, a patto di non spacciare la risposta a un bisogno per una domanda scomoda, con il rischio di fornire una non risposta (o uno sviluppo piuttosto elementare e goffo) a chi è ancora là fuori a interrogarsi sul futuro.



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