Ad animare il concorso del Festival di San Sebastián arriva Il prodigio (The Wonder), il nuovo veicolo Netflix di Sebastián Lelio, che torna a una grande produzione internazionale quattro anni dopo aver diretto Julianne Moore in Gloria Bell.
Basato sul romanzo di Emma Donoghue, il film si rivela in primis una riflessione in immagini sul potere della visione, e sulla (nostra) capacità di credere o meno a quanto abbiamo davanti.
Nel 1862 la giovane infermiera Elizabeth Wright (Florence Pugh) sbarca nella cupa e ventosa Irlanda dalla nativa Inghilterra, chiamata da una piccola comunità rurale a investigare sul caso della giovane Anna (Kila Lord Cassidy): una ragazzina che digiuna da quattro mesi e continua a mantenersi in salute. Cosa si nasconde dietro al prodigio? I saggi del villaggio, dal dottore al parroco, intimano all’infermiera di limitarsi a osservare i fatti, ma è chiaro che non sanno che pesci pigliare. La famiglia di Anna è insofferente, accoglie Elizabeth a muso duro. L’adolescente prega e afferma di ricevere la manna dal cielo: per molti è già una santa.
L’unica iniezione di concreto pragmatismo arriva dal giornalista londinese (Tom Burke) chiamato a scrivere del caso, che di farsi abbindolare non ha intenzione: per lui è tutto un imbroglio.
Ma più Elizabeth rovista nel torbido, più la storia familiare di Anna assume i connotati di un piccolo, orrido ginepraio. L’ombra di un misterioso fratello morto in giovane età, l’ossessione per la vita ultraterrena, l’omertà strisciante fanno intuire verità che cambiano le priorità dell’infermiera: svelato il mistero, la missione sarà salvare Anna da un digiuno che ora rischia di ucciderla.
Mentre tesse i fili della trama, Lelio dà lo stesso peso alla creazione dell’atmosfera: plumbea e fosca, ma senza insistenze inquietanti che spesso per lo spettatore sono un piacere proibito.
La fotografia della candidata all’Oscar Ari Wegner, così terrea e bluastra, ne è ingrediente fondamentale. Ma altrettanto utile si rivela la colonna sonora di Matthew Herbert, che trasforma suoni reali (il masticare, lo sbattere di una porta) in percussioni.
Da un punto di vista visivo The Wonder insiste ovviamente sul tema del cibo, contrapponendo il non mangiare di Anna ai pasti che Elizabeth consuma in silenzio, inquadrata frontalmente, come se fissasse la matassa di cui cerca il bandolo.
Nel suo riproporre il tema del vedere e del credere, e di un’apparenza che non coincide con la realtà, il film di Lelio può ricordare Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton. L’associazione mentale più immediata arriva quando viene mostrato un taumatropio, un dischetto che si fa ruotare velocemente mediate i due fili appesi alle estremità: sui due lati sono raffigurati due soggetti, un uccellino e una gabbia, che l’occhio umano percepisce insieme. Un uccellino libero e una gabbia vuota diventano così un uccellino in gabbia.
Anche in The Wonder, per trovare la chiave del mistero è necessario dubitare di quello che si vede. Certo, al film di Lelio manca il gusto del gotico che aveva Burton, quel compiacersi del brivido sinistro che diventava sinonimo di intrattenimento. Ma, se il taumatropio è la referenza più esibita, le strutture dei due film hanno diversi punti in comune: una figura estranea arriva a cercare di risolvere un caso che la collettività locale non sa come affrontare.
Sebastián Lelio, del resto, sfida la sospensione dell’incredulità. Con quell’incipit in cui mostra il backstage e lo studio in cui il film viene girato ci ricorda che, in qualche modo, siamo noi a scegliere di lasciare quell’incredulità fuori dalla sala, o di portarla con noi. Che in fondo è un processo simile a quello cui è obbligata Elizabeth Wright, pur con tutte le differenze del caso, quando arriva in un luogo sconosciuto per venire a capo di un rebus. Di fronte al quale, per molti, è più facile credere che ragionare.
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