Passa fuori concorso a San Sebastián, per quella che è probabilmente la sua ultima tappa festivaliera, Peter von Kant, l’atteso remake de Le lacrime amare di Petra von Kant firmato da François Ozon.
Il golden boy, anche se è ormai sopra i 50, del cinema francese non rilegge Rainer Werner Fassbinder con fedeltà pedissequa, però. Consegna alle sale un twist cinefilo, una variazione sul tema che trasuda amore deferente per la settima arte e senso estetico: visivamente, siamo più in zona Otto donne e un mistero o Potiche piuttosto che Doppio amore o 5×2.
Ozon traduce la storia al maschile. Il protagonista (Denis Ménochet) dà il titolo alla storia: un regista ingombrante, non solo fisicamente. Vanesio e collerico, vessa il biondo e silenzioso assistente (Stefan Crepon), masochisticamente devoto. Quando la diva Sidonie (Isabelle Adjani), ex-musa degli anni d’oro, gli presenta il giovanissimo Amir (Khalil Gharbia), Peter von Kant perde la testa. Il #MeToo riecheggia pericolosamente nel rapido e sfacciato invito che il regista fa al ragazzo per discutere di una carriera da attore sul suo divano: ma sono altri tempi, Ozon guarda al binomio sesso-e-potere con ironia quasi maligna, con impercettibile insistenza sul lato grottesco della cosa. Anche perché il gioco è breve: i ruoli si invertono, la presunta vittima si rivela carnefice. Diventato una star, Amir trasuda indifferenza velenosa: acido e pungente, mal sopporta il suo corpulento Pigmalione che si strugge d’amore e diventa corpo torturato dalla passione e dalla vergogna per il suo aspetto sgraziato. La rottura è amara e inevitabile.
La catarsi si compie al compleanno del regista, in un valzer psicologico ballato dal trio composto da Sidonie, dalla figlia avuta in gioventù (Aminthe Audiard) e dalla madre (Hanna Schygulla).
Teatrale com’era facile aspettarsi e splendidamente illuminato dalle luci di Manuel Dacosse, Peter von Kant rilegge l’amour fou senza simpatia per i suoi personaggi in un gioco che è essenzialmente stilistico, cerebrale. L’approccio è divertito, ma mai appassionato.
I picchi di lucidità di Nella casa sono lontani. Eppure, nella mancanza di simpatia per i suoi protagonisti, François Ozon ottiene un cocktail originale di distacco, malinconia e comicità: non sembra farsi domande su come dovremmo sentirci davanti alla storia di Peter o a quella di Amir, ma ne filma il lato grottesco restituendolo in una confezione deluxe (i costumi di Pascaline Chavanne, le scenografie di Pascaline Chavanne) che ben contrasta con la sua amarezza.
Con il cameo di Hanna Schygulla, che nell’originale di Fassbinder era il personaggio trasformato da Ozon in Amir, l’omaggio alle origini della storia è completo. Peter von Kant può così trasformarsi in una sferzante, febbrile rilettura che deforma e ingigantisce i difetti dei suoi anti-eroi, anche se manca (volontariamente?) di mostrarne la vulnerabilità più autentica, rischiando di limitare il tutto ai toni della caricatura.
Il fascino divistico di Isabelle Adjani è intatto: l’artificio da star è perfetto, probabilmente non è un caso che il regista abbia affidato a lei, una delle poche superstar francesi ad aver conquistato il mondo (due nomination all’Oscar e l’Orso d’argento vinto a Berlino per Camille Claudel sono solo due esempi) il ruolo della celebrity che, in qualche modo, mette in moto la storia.
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