Tra le recenti uscite in ambito horror e dintorni non si può non segnalare Marianne (Samuel Bodin, 2019 -), la serie francese targata Netflix – rilasciata in comode otto puntate – che racconta le peripezie di una nota scrittrice horror, Emma Larsimon (Victoire Du Bois), alle prese con un’entità maligna che pare nutrirsi delle sue paure e farsi strada tra le pagine dei suoi romanzi fino a intaccare la piccola realtà della provincia in cui è nata e cresciuta, e da cui era fuggita in giovane età. Il necessario ritorno a casa costringe Emma a fare i conti con un passato troppo presto dimenticato e una serie di fantasmi più o meno molesti, suggerendo che la sua fervida immaginazione, forse, è frutto più della sua intensa attività onirica che del suo reale talento descrittivo…
Se non è lo spunto narrativo a decretare il successo o l’originalità di un prodotto come Marianne, che tra soluzioni di sceneggiatura telefonate e jumpscare un tanto al chilo si afferma come prodotto di media qualità, si può dire che il maggior pregio della serie risieda nella costruzione – circoscritta e slegata (dal resto) – delle sequenze horror, capaci di generare apprensione e regalare allo spettatore una buona dose di spavento.
Pur faticando a ingranare, dal momento che le vicende e le figure sulle quali fanno leva i misteri di Elden sono (de)scritti con superficialità e una punta di cattivo gusto – incomprensibili alcune scelte stilistiche, come le declinazioni comiche e caricaturali di precisi personaggi e passaggi narrativi, soprattutto alla luce dell’ingente peso drammatico di suicidi, infanticidi e abusi presenti nella serie – Marianne è sostenuta da momenti di puro terrore che, da soli, sembrano in grado di fomentare una morbosa curiosità e stimolare un crescente interesse, portando a casa un risultato. C’è anche da dire che, una volta superata metà stagione, la storia tende ad assestarsi puntando maggiormente sull’orrore e scalzando completamente la quota comedy, offrendo finalmente uno spettacolo rigoroso e un clima più centrato che sembrano agevolare la missione narrativa.
Così, se la prima parte appare come una copia abborracciata dei romanzi di Stephen King – una maionese di generi sempre sul punto di “impazzire”, che riesce appunto solo a King – la seconda pare invece avvicinarsi al miglior Wes Craven, con quella stravaganza creativa in grado di confondere sogno e realtà e risolvere così ogni leggerezza o incongruenza narrative. Al fallimentare tentativo di tenere insieme mistery, comedy e dramma introspettivo (della prima parte di stagione), si sostituisce (nella seconda parte) un racconto horror teso e coeso ricco di trovate visive originali e buoni colpi di scena.
Insomma, superato lo scoglio iniziale sarà possibile godere di una serie di genere horror come se ne vedono poche, confidando che il cliffhanger di fine stagione sia solo il preludio di un incubo senza (altre) facili scappatoie.
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