Alzi la mano chi non ha dovuto ricorrere a un recap approfondito prima di intraprendere la visione della nuova stagione di Dark, la serie sbarcata su Netflix nell’ormai lontanissimo 2017 e di cui ci eravamo prontamente occupati. Creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, Dark torna sugli schermi per raccontare e approfondire le peripezie delle anonime ma intricate famiglie che abitano Winden, la cittadina tedesca che sorge su un wormhole cui si accede attraverso le grotte sotterranee. Da qui – avevamo scoperto – gli abitanti avevano dato il via a un tale groviglio di vite che capire “chi fosse parente di chi” appariva più difficile che nell’ultratrentennale Beautiful, tanto che sciogliere il nodo che li avrebbe liberati dal loop spaziotemporale era diventata una missione prioritaria per molti, e letale per alcuni…

I Kahnwald, i Nielsen, i Doppler e i Tiedemann sono i quattro alberi genealogici da cui partono tutte le diramazioni narrative, fatta eccezione per Noah, un losco predicatore apparentemente slegato da tutti che, però, sembra saperne più dei diretti interessati. Ciò che c’era di affascinante (e che ritroviamo in questa stagione) nel complicato intreccio di Dark erano e sono le rivelazioni sui legami familiari che, a ogni nuova connessione, sono in grado di produrre svolte narrative capaci di stravolgere le intenzioni e, soprattutto, la natura dei personaggi. I “buoni” e i “cattivi” vengono continuamente permutati e le identità spesso rinegoziate.

Sul piano della narrazione ogni regola sui ruoli e sulle relative funzioni viene spazzata via per lasciare spazio a una cosmogonia fortemente instabile, senza capo né coda, in continua trasformazione. Ed è questo, forse, l’aspetto più curioso di una serie come Dark, interessata a indagare in modo originale – eludendo il tempo e lo spazio contingenti – l’entità umana, eternamente scissa tra pulsioni fisiche e immanenti e pulsioni spirituali e trascendenti. Chi sia corretto e chi iniquo dipende dal punto di vista, così come cosa sia giusto o sbagliato può dipendere dal contesto spaziotemporale abitato.

Va da sé che Dark, senza nemmeno sforzarsi troppo, riesce a tenere insieme un discorso sull’evoluzione dei costumi sociali, un discorso sulle trasformazioni dell’etica e un discorso sulla strumentalizzazione delle scoperte scientifiche e/o nuove tecnologie fondendoli come fossero un tutt’uno, una materia oscura in grado di muovere cose e persone in uno sconfinato ed eterno presente. Se la prima stagione puntava maggiormente sul primo aspetto, muovendosi entro i paletti del giallo e del mystery, questa seconda stagione preferisce intelligentemente sondare i territori della fantapolitica e della fantascienza, intessendo relazioni sempre più ambigue e ricattatorie, per poi (presumibilmente) concentrarsi nel corso della terza stagione sul post-apocalittico e low fantasy. Con il passaggio da un genere all’altro abbiamo assistito anche a un alleggerimento del dramma, o una sdrammatizzazione degli eventi che, man mano che vengono re-impastati e ridefiniti da un ordine più grande di “storia”, assumono caratteri di blanda comicità, mentre l’azione scalza la flemma del mystery con un’articolazione tra storyline e accadimenti decisamente più spedita.

Certamente Dark non rinuncia al ritmo narrativo lento e solenne che l’ha contraddistinta sin dall’inizio, e che ben si confà alla struttura sempre più complessa del suo intreccio, tuttavia pare voler smarcarsi da ogni categorizzazione di genere provando a intraprendere anche quelle vie che, sulle prime, non sembravano percorribili. Le ultime parole di Martha Nielsen, in colpo di coda, sembrano far eco proprio alla mitica battuta cliffhanger di Ritorno al Futuro: “Strade? Dove andiamo noi non ci servono strade”, che già preannuncia un’altra imperdibile e imprevedibile stagione.



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