Mettiamo subito le mani avanti: Blue Jasmine non è un capolavoro, come tale si promuove da 6/7 anni a questa parte qualsiasi film di Allen che esuli dalla purtroppo ormai consueta mediocrità.
Anche qui infatti siamo lontani dall’ultimo vero pezzo grosso di Woody, quel Match Point che era perfetta bomba a orologeria, che (s)correva percorso da una tensione palpabile e implacabile, e a cui non avresti tolto un minuto, una battuta, uno sguardo, un’inquadratura.

Nel pur buono Blue Jasmine non vi è tuttavia nessun particolare guizzo, scarto o colpo di genio, e se c’è è nella (scelta della) protagonista. Una Blanchett straordinaria nel reggere una pellicola che al sopraggiungere del terzo atto si trascina un po’ in qualche strascico di programmaticità, benché tutto vada come deve, come non può non andare. E funziona bene il serrato testa a testa con Hawkins, più defilata e sfumata, inevitabilmente in secondo piano ma altrettanto intensa nella minimale opacità del suo personaggio.

La trama è presto detta, lapidaria: quando le attività finanziarie illecite del marito truffaldino li mandano in bancarotta, la (ex) riccona e benestante newyorkese Jasmine si trova a un punto di non ritorno e di svolta della sua esistenza, costretta ad abbandonare il porto sicuro e (letteralmente) dorato delle sue certezze per ripartire suo malgrado da zero, dalla sorella(stra) ‘sfigata’ Ginger, da una nuova città, da se stessa, per ri-farsi o meglio per farsi da sola finalmente una vita. I giorni prima piacevolmente placidi, vuoti, oziosi adesso sono un foglio bianco da riempire; i dubbi però la assalgono, è sempre fuori posto nel bugigattolo in cui Ginger e il suo nuovo tamarro partner la accolgono; fa fatica a imparare l’uso del pc al corso a cui si iscrive, non sa che studi universitari riprendere, il dentista che la assume osa avances finanche aggressive.

Jasmine è bombardata da attacchi di panico, si ritrova non sa nemmeno lei come a parlare da sola in mezzo alla strada, mentre estranei che un tempo l’avrebbero ammirata e invidiata la guardano come una pazza da internare: ed è così che, passo dopo passo, sentiamo ribollire il collasso sotto il solito stampino della patina piatta e glamour di cui Allen riveste i suoi lavori: stavolta respira qualcosa di vivo, di crudele, di sempre più precipitosamente cupo.

Una vita spezzata da (e in) un circolo vizioso, frammenti che si accartocciano su se stessi mentre Jasmine tenta di rattopparli, di ricucirli, di leccarsi le ferite, di chiudere col passato, il che significa però riaprire di continuo gli accessi al dolore. È un gioco a perdere, la sconfitta, quando la consapevolezza non è la diretta conseguenza: e il fallimento e il pessimismo non si riverberano solo nella figura decadente e allo sfascio – inconsapevole ma che divora l’inconscio e il fisico – di Jasmine, che somatizza nervosamente e nevroticamente.
Ginger, invece, passa da una relazione sbagliata all’altra, sempre ferma allo stadio di una svilente e degradante miseria amorosa; ma è, nella sua ingenuità, nel suo prendere addosso le cose in maniera genuina, più coraggiosa della sorella, soprattutto nell’accettazione dell’imperfezione, propria e dell’altro da sé. Ciò che Jasmine non riesce, razionalmente, a comprendere, a desiderare di capire.
E l’immagine di sé che si è fabbricata non può prescindere dagli attrezzi, dai componenti della sua costruzione: è arredatrice di interni, ma cieca quando prova (ma ci prova mai?) a guardare la sua interiorità; può solo, appunto, abbellirla, adornarla, ma non cambiarne la conformazione e frana quando le si sottraggono gli orpelli.

Detto questo, Allen gioca bene ma gioca facile: tutto va nel modo più giusto (e, per un autore come lui, appunto fin troppo pianamente), nella storia (che non può che essere declinante) di una donna che passa dall’oro alla polvere, che gira la testa dall’altra parte anche quando la sconfitta le sta col fiato sul collo, la (ab)branca, la tallona. Woody riesce a essere ironicamente cinico (come nelle scene in cui Jasmine parla coi bambini e con una anziana sconosciuta) ma è la cattiveria, è l’abbruttimento, è il raggelante vuoto pneumatico ad azzerare la tragicomicità quasi grottesca delle situazioni. Vince la tristezza, vince il blue, appunto, perde Jasmine, perde Janette, che si maschera persino nel suo duplice nome e, alla fine, nella follia pur di non affrontare la realtà del crollo.



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