Rifkin’s Festival, il nuovo film di Woody Allen, ha il grande merito di avermi portato da tutt’altra parte, a riflettere ancora una volta su una delle Grandi Domande Cinematografiche. Il che vi dice già tutto quello che c’è da sapere su un film che ripete un copione che sappiamo a memoria, con minime varianti. Un critico va al Festival di San Sebastian con la moglie: lei spasima per un giovane regista, lui s’invaghisce di una bella dottoressa.

Non siamo a New York ma si parla di New York, siamo in vacanza ma si parla di medici e strizza-cervelli, siamo a un Festival ma non si parla di cinema del presente, perché né il cinema né i Festival sono più quelli di una volta. C’è il momento Woody troll con la pseudo minorenne sgallettatata che si scopa il vecchio artista maniaco e panzone, perché sia mai che Allen ci risparmi. Si ride? Ogni tanto.

Non è un picco nemmeno per il tardo Allen, che i suoi picchi (comunque lontanissimi dai film di due o tre decadi fa) li ha. Non qui. Nota positiva: Wallace Shawn è un ottimo alter ego alleniano, bravo a incarnare le sue nevrosi e fisicamente più credibile di altri tentativi recenti di trasfigurarsi su schermo. 

Nel film il protagonista Mort rimpiange così tanto i bei film di una volta da finire per sognarli, in versione autobiografica e parodica. Questo è l’aspetto più interessante e non tanto per l’esecuzione, quanto per la scelta dei classici omaggiati e delle iconiche scene ricreate. Con tanto di risata sottolineata della platea dei proiezioni che ci tengono a far sapere che loro, che apprezzano Allen, hanno capito il riferimento. 

Prima di continuare vi propongo un piccolo quiz, anonimo: qui trovate un form con le descrizioni delle scene parodiate

Potete provare a indovinare quali siano. Non fatemi gli splendidi facendovi suggerire da Google: il questionario è anonimo, non c’è gloria né classifica. Il punto dello stesso (già sottoposto a un pool scelto di cavie conoscenti) è capire quanto questi film siano riconoscibili presso la popolazione moderatamente cinefila e frequentatrice occasionale della sala. Ovviamente c’è un grosso deficit di partenza: la resa di una descrizione a parole non è la stessa di un video completo di inquadrature, colori, composizione e musica, ma qualche risultato interessante questo esperimentino l’ha comunque dato. 

In Rifkin’s Festival i film citati direttamente con un rifacimento di una scena cult sono nove(a meno di sviste mie). Il protagonista Mort infatti passa tutto il film a rimpiangere il grande cinema europeo, che ha “reso adulta la cinematografia”, contrapponendolo alla spensieratezza e all’ottimismo vacui della controparte statunitense. 

È interessante vedere quali film europei vada dunque a scegliere Allen e quali siano i più riconoscibili per il pubblico (dei miei conoscenti, tutti più o meno interessati al cinema, alcuni da moderatamente a molto cinefili). 

Ultima possibilità di compilare il quiz prima delle soluzioni. 

Sue, la moglie di Mort, sdraiata a letto in un scena di Rifkin’s Festival (2021)

Decalogo del cinema bello poiché sottotitolato

Le scelte di Woody Allen sono il decalogo dello statunitense over 50 che “ama solo i film se sottotitolati”, come lo schernisce la cognata. Si comincia da Quarto Potere di Orson Wells, che europeo non è ma rimane punto di partenza e arrivo imprescindibile per qualsiasi statunitense (citofonare David Fincher con Mank). In Europa, sorpresa, un po’ meno. Mi aspettavo che alla parola “slittino” avrebbero indovinato quasi tutti. In tanti, ma non è il film più riconoscibile. Il che dice molto della cesura tra Europa e Stati Uniti, dello snobismo di considerare i film “stranieri” e di quanti poi in effetti Mank l’abbiano visto. 

La madre di Kane discute del suo futuro mentre il bimbo gioca fuori dalla finestra (Quarto Potere).

Il film di gran lunga più individuato è Il settimo sigillo, una delle tre pellicole di Ingmar Bergman che Woody Allen cita. Che Allen ami molto Bergman è notorio, ma sinceramente non mi aspettavo che fosse ancora così riconoscibile nel 2021. La descrizione della partita a scacchi e del mantello nero della Morte hanno trovato tutti preparatissimi, ma a domanda diretta solo un paio hanno confermato di aver visto il film. È forse l’unica scena tra le nove citate da Woody Allen ad essere così radicata nell’immaginario collettivo – quasi sempre mediante parodie o omaggi all’iconografia del Triste Mietitore – da essere in effetti immediatamente identificabile per quasi tutti. 

Per Il posto delle fragole e Persona il discorso è differente. Il primo (a dire il vero già poco riconoscibile nel film perché lo spezzone è fortemente alterato) sembra desunto da qualcuno più per il particolare del cestino di frutti selvatici che per la scena in sé. Quasi nessuno lo ha visto. 
Persona invece vive un fenomeno curioso: in tantissimi mi hanno detto “mi dice qualcosa” e davanti alle soluzioni hanno aggiunto “ah Persona! Ci potevo arrivare”. Questa notorietà di Bergmar per me è inaspettata, anche tenendo presente il recente omaggio al film fatto da Marracash nel 2019 con l’omonimo LP campione di vendite. Anzi, ad alcuni ho rivelato io la correlazione. Da dove viene questa riconoscibilità di PersonaIn pochi lo hanno visto e nessuno a saputo dirmi perché “avrebbe potuto arrivarci”, da dove venga la sua familiarità con la scena dell’attrice muta e dell’infermiera che fa il monologo. È importante sottolineare anche come sia stato davvero difficile per me descrivere a parole quella scena: probabilmente leggendo la mia descrizione non avrei indovinato nemmeno io. 

Poteva mancare Fellini? No, anche se Allen pesca la scena della Cavalcata della Valchirie di , decisamente non la più famosa. Forse la più economica da ricreare. Quel che è certo è che  è un film ad altissimo tasso di scene iconiche, che nel suo essere onirico sviluppa una vera e propria estetica che ricorre quasi ovunque nel cinema statunitense, anche nei filoni più inaspettati. Un citazione di Fellini e di questo film in particolare fa figo, soprattutto tra quanti la colgono. 
Il lungometraggio più autobiografico di Fellini è uno dei più amati della sua filmografia negli Stati Uniti, specialmente tra i grandi autori. Difficile vedere una lista dei loro film preferiti senza che spunti, anche comprensibilmente. È il flusso di coscienza cinematografico per antonomasia, nella speranza che prima o poi Terrence Malick se la metta via a riguardo. 
Quel film però Fellini l’ha cavato fuori dalla paura (dalla consapevolezza?) di essere discusso, lodato, ma in fondo in fondo poco visto e conosciuto. Che poi è un po’ il punto della mia riflessione.

Quanti classici vengono visti a più di mezzo secolo dalla loro realizzazione? 

Una risposta molto comune a questa descrizione è stata “qualcosa di Fellini”, perché avevo lasciato un bell’indizio citando la presenza di preti e suore nella descrizione della scena. Qualcuno però ha risposto Sorrentino, il che è comprensibile, avendoci vinto un’Oscar con il revival felliniano contemporaneo per antonomasia. Non l’unico, ma il più riuscito. Per me è comunque un aspetto sorprendente, affascinante: personalmente ho amato follemente Sorrentino nella sua prima parte di carriera, quando era già sostenuto dai poteri forti di CIAK e affini (quanti Ciak bello e invisibili ha vinto il primo Sorrentino?) ma in concreto film come Le conseguenze dell’amore e L’uomo in più non li vedeva nessuno. Film che di felliniano hanno davvero pochissimo. 

Un bacio tra i due protagonisti di Un uomo, una donna. 

Su Un uomo, una donna di Claude Lelouch è andata invece esattamente come mi aspettavo: il 100% degli over 50 lo hanno individuato, mentre oltre a me solo una persona molto amante del vecchiume francese ha tirato fuori il titolo tra gli under 50. D’altronde è il film sentimentale per la generazione di Woody Allen: Un uomo, una donna è il loro film da sospirone, romantico, avvolgente. Io stessa l’ho visto qualche tempo fa perché i miei genitori me ne avevano parlato con molto affetto. Claude Lelouch però in mezzo a Bergman e Fellini è poco più di un onesto mestierante. Includerlo qui è un cedere alla nostalgia, un gesto generazionale, figlio del sentimento. È comprensibile che Un uomo, una donna muoia con la generazione che lo ha amato, con l’unica, importantissima eccezione del tema musicale, conosciuto da tutti (senza però poterne ricollegare l’origine al film).

Rimanendo in Francia, su Fino all’ultimo respiro e Jules e Jim è stata una strage. Certo Allen non sceglie le scene più iconiche dei due film, ma anche i più esperti di Novelle Vague e dintorni hanno sbagliato qualcosa, pur indovinando l’allure godardiana o i trascorsi di Truffault. Sospetto che se la scena citata fosse stata quella della corsa al Louvre sarebbero fioccati riferimenti a The Dreamers. Curioso però come la memoria di due grandi padri del cinema francese sia custodita soprattutto da attempati registi statunitensi o da cinefili irreducibili. Ovviamente il dato davvero interessante sarebbe capire quanti vicini francesi indovinerebbero gli stessi riferimenti. A pelle, le quotazioni di Godard e Truffault tra i più giovani sono bassissime. Non so quante volte mi sono trovata a spiegare l’origine del nome del sito dei 400 calci, per dire. 

Gli invitati a una festa dell’alta borghesia protagonisti di L’angelo sterminatore.

Niente però giace dimenticato e ignorato come il cinema di Luis Buñuel. L’aspetto angosciante è che lui ne era perfettamente consapevole: vaticinò funerali scarsamente frequentati e l’oblio per i suoi film, come riportato in un bel volume di suoi scritti curato da Goffredo Fofi (un vero fanboy dI Buñuel), letto qualche mese fa. Un pugno di cavie ha indovinato il titolo de L’angelo Sterminatore, certo, ma il riferimento alla barriera invisibile è così distintivo, così univoco che basta anche solo averne sentito parlare per ricollegarlo. Anche io in sala non ho riconosciuto subito la scena, ho faticato. Chiedendo ulteriori dettagli ad alcuni partecipanti, citando titoli come Il fascino discreto della borghesia o Bella di giorno, mi sono resa conto che Buñuel è già perduto. 

La mia prima reazione sarebbe ovviamente gridare allo scandalo, ma una lista del genere in ambito letterario o peggio ancora musicale mi metterebbe in enorme difficoltà. Il cinema è l’arte più giovane, ma ha comunque più di un secolo. Per quanto possa sembrare inconcepibile a Allen e a me, film con 60 e più anni alle spalle sono destinati all’oblio anche se assoluti capolavori ed è naturale, comprensibile, giusto. Il cinema è stato strepitoso nel costruirsi un canone, più definito e consolidato di quello di altre arti. Le persone spesso s’imbarazzano (a torto) nel ammettere di non conoscere se non di nome film come e Quarto Potere, sentendosi a disagio proprio perché si è fatto un ottimo lavoro nel presentarli come imprescindibili, anche se di fatto poi non si è riusciti a renderli tali. È giusto lasciarli andare, regalarli all’oblio e liberandoli dall’essere ostaggio di cinefili pretenziosi? Forse. Di fronte a un canone in continua, poderosa espansione (sia nel presente, sia nel passato di film dimenticati o zittiti per questioni decisamente extra cinematografiche) qualcosa è destinato a sparire, forse anche tutto cinema di Luis Buñuel. 

Il tentativo però di spiegarne l’importanza concreta, contemporanea, non deve mancare. Questi film non bisogna lasciarli ostaggio di Allen. Bisogna liberarli dal piedistallo, tirarli giù e lasciare che siano gli spettatori a decidere se hanno qualcosa da dire loro, se possono essere rimessi in tribuna d’onore o se possono essere messi da parte. D’altronde Fellini e Buñuel sapevano che la consacrazione era la prematura anticamera del dimenticatoio. Intoccabili, mai più toccati.

 


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