Sul finire dello scorso anno, un po’ per caso o forse perché attirato dalla coloratissima copertina, sono stato colpito da quello che si è rivelato un libro potentissimo. Dovrei saperlo: non si giudica un libro dalla copertina, né dalla quantità di pagine. Dietro quei gabbiani che solcano un cielo azzurrissimo, e dentro quella centinaia di pagine de L’addio a Saint-Kilda, Éric Bulliard racconta una storia piccola, vecchia di un secolo, ma che parla molto di noi oggi, della nostra incapacità di preservare il ricordo quando cambiano i ruoli, ma anche di come sia possibile raccontare una vicenda doloroso senza trasformarla in pornografia.
Ora che finalmente si può, 21 Lettere ha portato Éric Bulliard in Italia, a raccontare il suo libro direttamente ai lettori, dentro le librerie. Io ho approfittato dell’occasione per porgli qualche domande, rimasta in sospeso fin da quando ho riposto L’addio a Saint-Kilda sulla mensola: benché non abbia potuto fisicamente raggiungerlo nel suo tour per l’Italia, grazie allo sforzo dell’ufficio stampa di 21 Lettere le sue risposte sono riuscite comunque a raggiungere le pagine di Players.
Come mai, secondo lei, al di fuori del Regno Unito l’arcipelago di Saint-Kilda e le vicende che ha ospitato è così poco nota? E come mai a uno svizzero è venuto l’impulso di raccontarle?
Non so perché questa storia sia quasi sconosciuta al di fuori del Regno Unito. È legata alla storia della Scozia, che non conosciamo bene. Ci sono probabilmente molti popoli in numerose regioni del mondo che hanno delle storie straordinarie che non escono dalle loro frontiere.
Per quanto mi riguarda, mi sono appassionato a Saint-Kilda dopo avere scoperto delle vecchie fotografie in una mostra di Dunvegan Castle, sull’isola di Skye. Ho visto nelle foto dei visi, degli sguardi che mi hanno affascinato. Ho iniziato a leggere tutto quello che ho trovato sulla storia di quest’isola e di questa gente. Il loro modo di vivere, il senso di solidarietà e di comunità mi hanno toccato molto. Come svizzero, vivendo in un paese ricco e tranquillo, mi sento molto lontano dalla loro vita, ma c’è questa profonda umanità che mi sembra universale… o che dovrebbe esserlo.
Perché, secondo lei, un’infermiera è riuscita a convincere i sankilidiani che non fosse più possibile, laddove né malattie né carestie avevano mai scalfito la loro convinzione?
Penso che l’infermeria, Miss Barclay, sia riuscita a convincerli perché era molto amata e rispettata degli Sankildiani. Non c’era gerarchia sull’isola, non c’era un capo, ma vedo l’infermeria un po’ come una mamma, che tutti ascoltavano. C’è stato pure l’episodio della morte di una donna, che era incinta: Mary Gillies, 36 anni, ha avuto un’appendicite e non ha potuto essere salvata, anche se era stata portata all’ospedale di Glasgow. È accaduto poco prima della decisione dell’evacuazione e questo dramma ha forse avuto un ruolo.
Poi, probabilmente, in fondo, loro sapevano che l’evacuazione era diventata inevitabile. Erano solo 36, pochi giovani, la situazione era disperata. Ma ci voleva qualcuno di esterno, una persona che non era nata lì e non aveva gli antenati lì per dare l’impulso e aiutare a prendere questa decisione molto difficile.
La storia di Saint-Kilda racconta di un’emigrazione di necessità, in occidente, meno di cento anni fa: perché secondo lei dimentichiamo così in fretta il nostro passato?
Ancora una domanda alla quale non ho una risposta chiara e unica… Credo che l’essere umano abbia la memoria corta, in particolare per i ricordi dolorosi. In Svizzera, oggi, si vive bene, ma abbiamo dimenticato che 150 anni fa eravamo noi a emigrare, per necessità, in Brasile o in Argentina. In Italia è ancora più vero: c’è una lunga e difficile storia legata all’emigrazione e, personalmente, sono sempre stato commosso delle persone che devono lasciare la loro terra con la speranza di trovare lavoro e di farsi una vita altrove, dove non parlano la lingua, dove non conoscono nessuno. È una storia di necessità, ma pure di coraggio. Anche se non è il tema principale, questo libro ricorda che l’emigrazione è quasi sempre una necessità e non un piacere. E forse dovremo ricordarlo oggi, dal momento che siamo diventati un paese d’immigrazione.
Ciò che ho più ammirato del suo libro è lo sforzo di non cadere mai nella retorica, nel sentimentalismo o in un’inutile glorificazione dei bei tempi andati: quanto sforzo ha richiesto questo approccio, così lontano da quello attraverso cui i media ci hanno abituato a filtrare il mondo esterno?
Quest’osservazione mi fa molto piacere, perché era un’idea che avevo sempre in mente: volevo rendere omaggio a questa gente e per realizzare il mio scopo, dovevo evitare di essere troppo lirico o di cadere nel sentimentalismo, come dice lei. Davvero, è stata una preoccupazione constante quando scrivevo. Ho voluto mantenere un equilibrio, evitando sia la retorica esagerata sia la banalità. Secondo me, questa era la maniera più giusta per fare conoscere la vita dei Sankilidiani e l’atmosfera che si sente lì. Sono molto “influenzato” dall’opera di Philippe Jaccottet, la sua poesia e i diari (“les carnets”). Lui parla spesso e volentieri della “justesse de voix” o della “justesse de ton”. Significa trovare le parole giuste, il tono giusto per trasmettere una sensazione, un’emozione, evitando eccessi e parole troppo forti, esagerate. Questo è un principio che provo ad avere in mente quando scrivo.
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