Quando ci si trova ad immaginare l’autore esordiente capace di vincere più di ogni altro nel comparto fantastico e fantascientifico con il suo primo romanzo (Hugo Award, Nebula Award, Arthur C. Clarke Award, BSFA Award, Locus Award e Kitschies Golden Tentacle) si pensa a qualche distinto signore anglofono icona degli anni ’50 e ’60, oppure a un giovane alla mano che indossa bermuda e tshirt a tema nerd. Perché sì, è questo lo stereotipo dell’autore di successo fantascientifico: maschio, appartenente alla generazione dei nerd ante litteram o alla nuova ondata 2.0.
Sorpresa, questo preconcetto persiste prevalentemente in chi non conosce molto bene le dinamiche più recenti (e purtroppo in Italia spesso non tradotte) della fantascienza del nuovo millennio: la vincitrice del 2014 di ogni riconoscimento significativo per la letteratura SFF è una gioviale signora quartantasettenne originaria del Missouri di nome Ann Leckie.

Ancillary Justice è stato IL libro fantascientifico del 2014, capace di piazzare ben 30000 copie con la sola prima edizione (contro una media per esordiente che raramente supera quota 1000), bilancio ancora da aggiornarsi con le ristampe dopo la vittoria di Hugo e Nebula e le vendite digitali. Il consenso critico è stato altrettanto massiccio, catapultando Ann Leckie da semisconosciuta autrice di storie brevi a nome di rilievo nel gotha della space opera.
Dopo un periodo di profonda crisi, l’ultimo quinquennio ha visto un notevole rivitalizzarsi di questa branca avventurosa della fantascienza, più dedicata al senso di meraviglia e libertà dei viaggi interplanetari avventurosi che al rigore scientifico applicabile a un ipotetico futuro (in altre parole, Guerre Stellari). Capofila di questo rinnovamento è John Scalzi, che è stato capace di riaggiornare il genere in maniera divertente, scanzonata ma fondamentalmente uguale a se stessa.

Ann Leckie

Seppur debitrice del cruciale sostegno ricevuto dal blog dello stesso Scalzi, stilisticamente parlando Ann Leckie non ha sfruttato la scia dell’autore come tanti suoi epigoni, bensì ha seguito un percorso diametralmente opposto, riscrivendo dalle basi la sua avventura spaziale.
Dici space opera e ti immagini inseguimenti su astronavi, sparatorie con pistole laser tra buoni e cattivi, alieni malvagi ed aliene sexy (in altre parole, Guerre Stellari). In Ancillary Justice, primo volume della trilogia Imperial Radch, l’azione esterna è ridotta all’osso e tutto o quasi si consuma dentro il cervello del protagonista, un’astronave.

Ci troviamo in un universo in cui i pianeti più appetibili sono stati colonizzati da due razze aliene in competizione tra loro; quella umanoide dei Radchaii richiama i fasti dell’impero romano (come suggerisce il titolo), basando la sua economia sulla continua espansione e sulla perizia della sua classe militare e aristocratica. Proprio alla vigilia della pace con il nemico e di un cambiamento socioculturale epocale, Breq si imbatte nel corpo agonizzante di Seivarden Vendaai, un ufficiale che dovrebbe essere morto tremila anni fa. Questa non è nemmeno lontanamente l’elemento più strano dell’incontro, perché Breq è un’ancillary, ovvero il corpo di un ex prigioniero la cui volontà è stata uccisa, diventando involucro dell’intelligenza di una nave spaziale, la Justice of Toren.

Ancillary Justice è un romanzo più che post moderno per come affronta la frammentazione dell’identità, uno dei temi centrali della narrazione, applicata stavolta a un’intelligenza artificiale. Nel corso delle tre linee temporali su cui si svolge il romanzo, la Justice of Thoren passa dall’essere una nave che trasporta truppe capace di sorvegliare contemporaneamente il suo interno e l’intero pianeta presso cui staziona grazie a centinaia di ancillary di cui si serve in ogni momento al solo Breq, ridotto alle percezioni di un essere umano singolo e psicologicamente ben distinto dalla sua unità madre. Appare chiaro fin da subito che gli eventi che hanno portato alla distruzione della sua unità principale e la sua vera identità saranno il mistero attorno a cui ruoterà il romanzo, su cui aleggia la potentissima ombra dell’imperatore Anaander Mianaai: provate a leggere il cognome ad alta voce immaginandolo in lingua inglese e capirete come si rimanga nel territorio della frammentazione dell’io.

frammentazione dell'io

Se c’è un elemento che fa funzionare la space opera è appunto lo spazio, un world building che riguarda un intero universo. In questo senso il lavoro di Ann Leckie è eccezionale, anche se non immediatamente accessibile. Non solo ci muoviamo tra tre piani temporali molto diversi che descrivono l’evoluzione dell’impero Radchaii, ma via via che il romanzo prende ritmo ci si sposta dalla periferia dell’impero al centro, venendo investiti dalla cultura dei protagonisti, ricostruita in maniera vivida e davvero affascinante. I Radchaii amano sorseggiare il té, che è quasi una bevanda sacra, collegata a un pantheon piuttosto composito a cui si rivolgono. L’aristocrazia si misura nei dettagli di vestiario, nel perenne utilizzo di guanti (intravedere le mani nude è estremamente volgare o intimo) e nella sfumatura scura della pelle: più ci si avvicina al nero, più si è di sangue blu, con tanti saluti a certe derive white washing della fantascienza più commerciale.

L’aspetto di cui si è più parlato però è il peculiare approccio linguistico di Ann Leckie, che scrive il romanzo completamente al femminile (niente he, his e riferimenti grammaticali al maschile). Nel suo mondo gli alieni protagonisti non sono distinguibili come genere a prima vista, perciò la loro lingua non riflette questa dicotomia e crea loro grosse difficoltà nel rapporto delle razze in cui il genere è rigidamente marcato. Alcuni tra i protagonisti non sono mai esplicitamente inseriti in un genere (tra cui Breq stesso), alcuni lo sono solo per allusioni. Il risultato, immergendosi nella lettura, è che si perde noi stessi il bisogno di ricordare chi è uomo e chi è donna, e tornando alla superficie l’errore in certe prospettive appare più macroscopico: perché ad esempio in molte recensioni si dà per scontato che l’imperatore sia un uomo, nonostante quest’ambiguità?

Ancillary Justice ha il grande merito di aver mostrato che la space opera può vivere di nuova vita e nuovi schemi, senza essere banalmente resuscitata. Si tratta di una lettura di qualità, non sempre accessibile ma con un’alta dose di letterarietà anche per i palati più esigenti: un ottimo antidoto ai preconcetti sul genere fantascientifico come pulp e “basso”. Unica avvertenza: purtroppo la traduzione italiana non è all’altezza. Se potete, orientatevi sull’edizione in inglese.

Ancillary Justice



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1 Comment

  1. spero che presto vengano tradotto il seguito di ancillary e di leviathan nuova linfa dopo troppe ristampe!

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