Presentato in anteprima mondiale durante il Festival di Cannes 2019 – la cui uscita italiana sarebbe prevista a maggio 2020 – Vivarium (Lorcan Finnegan, 2019), il piccolo e claustrofobico film che tanto ricorda (per formula narrativa e derivazione di genere) gli episodi della celebre serie Ai Confini della Realtà (Twilight Zone, 1959-64), si presenta agli spettatori come un prodotto di intrattenimento fortemente ambiguo, che sembra mal sposarsi con un’idea di narrazione strutturata e compiuta, caratterizzato com’è da una trama minimale, una costruzione spoglia e una traiettoria fortemente incerta. Anche per la durata, che si attesta sui 97 minuti, Vivarium potrebbe tranquillamente passare per l’episodio di una serie antologica di stampo sci-fi, tanto conciso quanto evocativo, e invece, al netto di qualche lungaggine e ripetizione irritanti ma assolutamente efficaci per ciò che il film intende comunicare, si presenta come un prodotto finito e circolare dalle imprevedibili virtù.
Vivarium racconta – ma è meglio usare il termine “inscena” – la ricerca da parte di una giovane coppia di una casa in cui trasferire le proprie speranze e i propri progetti, smaniosa di cominciare un nuovo capitolo della propria vita al prezzo di una sistemazione economica, anonima e periferica. Abbindolati da un agente immobiliare stravagante e insistente, Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Eisenberg) restano letteralmente intrappolati all’interno di una labirintica zona residenziale – chiamata Yonder – composta da villette a schiera tutte uguali, tutte indistinguibilmente perfette, tutte drammaticamente impersonali. Una visita a tempo indeterminato che si trasformerà presto in una prigione a vita, forse nemmeno troppo diversa da quella che avevano pensato di desiderare…
Il film, che gira insistentemente attorno all’idea di prigionia – senza che accada molto di più di ciò che viene riportato poco sopra – assomiglia più a un incubo buñueliano che a un vero e proprio racconto a tema. Mentre lo spazio e l’azione, nella loro protratta e semplificata ripetizione, sembrano dilatare il tempo ogni oltre tollerabilità, l’evoluzione esperienziale ed emotiva della coppia pare invece consumarsi a una velocità rapidissima – un minuto prima sono giovani amanti entusiasti, quello dopo sono relitti sfiniti, tenuti in ostaggio dalle richieste urlanti di un bambino venuto dal nulla – nonostante presumibilmente, dati gli indizi sullo scorrere del tempo e l’aspetto dei protagonisti, non siano trascorsi più di sei mesi.
A tutto ciò si annette il movente dell’intervento alieno – che fa eco al titolo – più surreale che razionalmente diegetico (di genere), in grado di ammantare il film di un’ulteriore tensione drammatica tesa a (s)piegare la tragedia della prigionia fisica, individuale e familiare (della coppia) all’interno di un’illusione mentale, collettiva e socio-economica (quella del consumismo).
Il film, così, diventa un efficace strumento di esasperazione atto a celebrare il delirio alienante dell’uomo che sogna una gabbia dorata, apparentemente dotata di ogni comfort, dalla quale presto o tardi vorrà evadere senza sapere come, se non attraverso la propria dipartita, lasciando in eredità al mondo il senso meno profondo e tangibile di libertà, nell’ottica di una replicante e sterile way of life.
Insomma, ce n’è abbastanza per farsi angosciare e fare il punto in questi giorni di straordinario e obbligato isolamento.
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