Siamo giunti all’ultimo appuntamento dedicato al Florence Korea Film Fest, manifestazione che ci ha dato modo di recuperare alcuni dei lungometraggi che tra il 2015 e il 2016 hanno riscosso successo entro e fuori i confini della Corea. In coda alla magnifica rassegna pare evidente che alcuni dei temi più trattati, e più cari ai filmmaker coreani, siano stati quelli della resistenza e della resa nei rapporti tra forze economiche, politiche e sociali – ma soprattutto culturali – vigenti tra la Corea del Sud (quando non anche la Corea del Nord) e gli “invasori”. Il tema, riletto in un’ottica non tanto storica quanto squisitamente allegorica, ha influenzato non solo i plot, ma anche e soprattutto la scelta dei generi e le relative strutture narrative.
I film – molti dei quali ambientati proprio negli anni dell’occupazione giapponese della Corea – hanno, infatti, tratto da quel momento storico sentimenti d’audacia e paura, sfrontatezza e pudore, fiducia/fede e scetticismo organizzandoli attorno alla figura dello straniero, proposta nelle diverse declinazioni possibili. Al variare del genere d’appartenenza e delle dinamiche conflittuali d’interesse, i film hanno proposto una peculiare sintesi dell’invasore: l’action spy movie The Age of Shadows (Kim Jee-Woon, 2016), il mistery sadomaso The Handmaiden (Park Chan-wook, 2016) o il civil drama The Net (Kim Ki-duk, 2016)… A sbaragliare tutti i meritevoli avversari, però, è stato l’ambizioso e composito The Wailing (Na Hong-jin, 2016), supernatural crime premiato dalla giuria come miglior film della 15esima edizione del Florence Korea Film Fest.
Il film è ambientato in un piccolo villaggio montano della Corea in cui l’arrivo di uno schivo giapponese (Jun Kunimura) sembra coincidere con l’avvento di una terribile epidemia in grado di tramutare i paesani in killer spietati, o in zombi sanguinari. In soccorso della comunità incredula e sconvolta giunge il poliziotto locale Jong-goo (Kwak Do-won) che, tra inettitudine e un pizzico di cialtroneria, si troverà a dover fare i conti con qualcosa di decisamente più grande di lui e dell’istituzione che rappresenta. Le indagini passeranno così dalla mera investigazione del fenomeno a una lotta senza esclusioni di colpi – o di riti sciamanici – in cui sono coinvolte le più alte cariche del bene e del male.
Tra i pregi del film è facile riconoscere la straordinaria varietà di suggestioni di genere e i numerosi cambi di registro. L’effetto non è quello posticcio e stridente di un collage figurativo, ma quello disciplinato e armonico di uno spartito musicale. Si passa in maniera fluida e coinvolgente dal drama alla comedy, dal giallo puro al supernatural crime, dallo splatter horror alla fumosa ghost story, tutto senza intaccare la natura dei protagonisti e la credibilità della vicenda trattata. In balia del vortice di indizi e sensazioni, che Na Hong-jin mette insieme lesinando sulle informazioni storiche – ma allungando, purtroppo, eccessivamente il minutaggio – lo spettatore finisce per perdere completamente l’orientamento, rinunciando a riporre la propria fiducia prima sui personaggi e sugli eventi e, infine, sulla stessa realtà diegetica. In questa tormentata caccia all’uomo, che si estende presto a una caccia agli uomini e poi ad autentici mostri, pare che il regista abbia voluto dimostrare l’assurdità del pregiudizio (il drama e la comedy) e la pericolosità della persecuzione (il crime e l’horror) in modo che si annullassero a vicenda. In The Wailing, infatti, non può esserci né una risoluzione dell’indagine, né una salvezza dell’anima, perché non c’è niente di più irreparabile dell’aver seguito una falsa pista, o una falsa credenza…
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