Tra i candidati della “raffazzonata” – a causa della pandemia – 93ª edizione degli Academy Awards, che si terrà domenica 25 aprile, spicca senz’altro il gioiellino The Father (Florian Zeller, 2021) – rinominato penosamente qui da noi Nulla È Come Sembra – il brillante adattamento cinematografico della pièce teatrale francese Le Père, tradotto e sceneggiato da Christopher Hampton. Si tratta del primo film di Zeller, drammaturgo 41enne con un talento naturale per la regia cinematografica che, nel passaggio da un medium all’altro, trasfigura la sua opera in un autentico incubo angosciante accostando a un già ingegnoso sfruttamento degli interpreti e delle scenografie, un uso molto suggestivo del montaggio.

La vicenda narrata, sulla carta tanto dolente quanto modesta, si trasforma sullo schermo nella rappresentazione inquietante e psichedelica della demenza, che vede l’ingegnere in pensione Anthony (Anthony Hopkins) alle prese con una realtà sempre meno responsiva, sempre meno affidabile, sempre meno gestibile, nonostante gli spazi e le figure frequentate siano quanto di più abituale e rassicurante ci possa essere: la propria casa e l’amorevole figlia Anne (Olivia Colman). Manipolando – alla maniera di Repulsion (Roman Polanski, 1965) – i luoghi e i volti che gravitano attorno alla figura di Anthony, giocando quindi con le dinamiche della suspense, Zeller realizza un efficace thriller sulla senilità, dove il sospetto del familiare e l’autopersecuzione hanno origine nella fallacità della memoria, producendo un sempre più terrificante effetto di derealizzazione.

Ivece di mostrarci il declino cognitivo di un uomo malato attraverso lo sguardo apprensivo a addolorato dei suoi affetti, in una patetica e strappalacrime parabola discendente, Zeller ci mette in connessione diretta con il suo protagonista, turbandoci attraverso la contraffazione continua e imprevedibile del mondo attorno a lui. In questo modo si sacrificano in parte l’empatia e l’amarezza per garantire una totale identificazione e sollecitare tutta una serie di sensazioni contrastanti: il turbamento, l’euforia, la paranoia, la rabbia, la frustrazione e la solitudine, che gettano in confusione lo spettatore costringendolo a prestare attenzione a tutti i dettagli della scena mentre si consuma il dramma.

the father

All’inizio scopriamo che Anthony è molto affezionato al suo orologio da polso, se ne serve per tenere traccia del tempo che scorre e poter così svolgere ordinatamente la sua routine. Ci accorgeremo presto che, senza la memoria, anche quel prezioso strumento di misurazione perderà valore e utilità. L’orologio appare e scompare, viene perso e rubato, nascosto e ritrovato. Smette di essere un mezzo orientativo per divenire prova materiale della caducità della percezione, passa dall’essere uno strumento di rilevamento dell’oggettività a mero effetto personale del soggetto. Da lì in avanti si assisterà a una continua e progressiva mutazione dello spazio e del tempo, che se inizialmente avverrà in maniera quasi impercettibile – interessando i dettagli dell’arredamento o i colori e le forme degli oggetti – successivamente apparirà sempre più evidente e inaspettata – coinvolgendo la fisionomia dei personaggi e la contiguità e coesione dei luoghi e dei momenti – fino a far saltare ogni logica.

A tal proposito il montaggio di Yorgos Lamprinos riesce a imprimere alla struttura della storia un aspetto labirintico e un andamento convulso come se ci si ritrovasse all’interno di un’opera di Escher, adottando soluzioni sullo spazio e sul tempo forse ispirate da un maestro della scrittura composita come Charlie Kaufman che, da Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004), passando per Anomalisa (2015), fino al più recente I’m Thinking of Ending Things (2020), ha saputo come pochi altri rappresentare quello smarrimento cosmico che solo una solida memoria, una fermezza psichica e un’abituale ordinarietà possono contrastare. I tagli, nel mettere insieme luoghi/volti differenti e momenti distanti tra loro, sembrano ridurre mesi, giorni e ore a singoli momenti di lucido sconcerto, mentre altre volte intervengono minando i rapporti di causa-effetto, anticipando l’accaduto con ciò che ancora deve accadere.

Si tratta di una scelta che, se inizialmente può apparire eccessivamente stravagante, al limite del comprensibile, troverà una tragica spiegazione nel finale quando ci accorgeremo che avevamo erroneamente interpretato il presente, il qui e ora. Un ulteriore twist narrativo che ci permette di cogliere fino in fondo il dramma e l’inquietudine di chi è affetto dal morbo di Alzheimer, attraverso la performance di un attore che, alla veneranda età di 82 anni, ci regala quella che forse è la prova più avvincente e straziante di tutta la sua strepitosa carriera.



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