Dopo quattro David e l’EFA, il golden boy italiano dei costumi per il cinema è candidato all’Oscar per Pinocchio. «Ho gioito a metà: in questo momento sbandierare il successo sarebbe di cattivo gusto». Dagli inizi al Centro sperimentale con Piero Tosi al grande salto con Il racconto dei racconti fino ai pranzi romani con Ann Roth, ritratto di un costumista che preferisce gli abiti finiti ai disegni: «Prendono vita sullo schermo e tutto cambia»

Si definisce timido e riservato. Non lo diresti, quando ci parli al telefono: niente in Massimo Cantini Parrini mi fa pensare a un orso.

Dal 2016 è una presenza fissa fra i candidati al David di Donatello per i migliori costumi. Quattro vittorie, di cui tre di fila tra il 2016 e il 2018. Su un mobile della camera da letto – «Tutti i miei premi sono lì» – ha anche tre Nastri d’argento e un European Film Award, arrivato nel 2018 per Dogman.

Quest’anno una nuova doratura lo ha imposto ancor più prepotentemente alla ribalta internazionale: la nomination all’Oscar (la cerimonia edizione-COVID in buona parte digitale si terrà la notte fra domenica e lunedì) per i costumi di Pinocchio, il bellissimo adattamento del romanzo di Collodi firmato da Matteo Garrone.

Sono pochissimi i precedenti nell’ultimo ventennio. L’ultima italiana a farcela per un film nostrano è stata Antonella Cannarozzi (candidata nel 2011 per Io sono l’amore). Poi due grandi nomi come Milena Canonero e Gabriella Pescucci, ma per produzioni non italiane. Per Massimo, fiorentino e profondo conoscitore di storia del costume, la candidatura è interamente tricolore.

A includerlo fra i migliori, quest’anno, è stato anche il sindacato USA dei costumisti con la nomination al Costume Designers Guild Award. Lui, a volte, sembra non farci caso: relativizza, perché «i riconoscimenti non sono un punto d’arrivo, ma di partenza».

Massimo, è vero che tutto è iniziato grazie a tua nonna?

Sì: ho respirato l’aria della sua sartoria fin da bambino. Passavo interi pomeriggi con lei, è stato naturale crescere con una sensibilità e una curiosità particolari.

Qual è stata poi l’esperienza formativa più importante?

Ho incontrato professori meravigliosi. Dopo l’Istituto d’arte a Firenze arrivai primo al concorso del Polimoda. Lì conobbi Cristina Giorgetti, storica del costume famosissima: siamo ancora in contatto. Più che le scuole, del resto, contano i professori. Essere fra i primi classificati al Polimoda mi permise di iscrivermi all’università: mi laureai in Cultura e Stilismo della moda. Vinsi il concorso per il Centro sperimentale, arrivando primo con mia grande sorpresa. Non sapevo disegnare, ma Piero Tosi rimase molto colpito dal mio esame orale. La pratica fu un disastro: non sapevo disegnare, lui si arrabbiò, discutemmo. Il primo giorno di scuola mi disse che mi aveva preso perché ero l’unico che gli aveva risposto: non alle sue domande, ma gli avevo tenuto testa. In questo mestiere ci vuole carattere. A formarmi, poi, hanno contribuito soprattutto gli studi che ho fatto la sera, da solo: a casa leggendo libri di moda e costume che compravo.

Hai lavorato a lungo con un premio Oscar come Gabriella Pescucci: una grande maestra?

Essere il suo assistente è stata un’esperienza che mi ha insegnato più di quanto immaginassi. Fare i costumi per un film è un lavoro complesso: devi occuparti di tutti, dagli attori alle comparse. Serve aver studiato. E serve avere passione: senza non vai da nessuna parte.

Quali costumi di un film del passato ti hanno ispirato?

Vedere Camera con vista per la prima volta, da adolescente, mi fece capire che la mia passione poteva diventare un mestiere.

Hai vinto il tuo primo David con Il racconto dei racconti di Garrone. Una produzione impegnativa come appare?

Assolutamente. Tre mondi con tre storie diverse. Era il mio primo film importante a livello cinematografico, con un regista come Matteo Garrone. Avevo già fatto esperienza di grosse produzioni, ma questo è forse il film che mi ha lanciato, che mi ha fatto conoscere.

Una preparazione lunga?

No. Un mesetto. È un po’ il mio karma: mi capitano sempre lavori per cui ho pochissimo tempo.

L’European Film Award invece è arrivato per i costumi di Dogman: un lavoro completamente diverso per un film contemporaneo.

La contemporaneità genera un’attenzione diversa: la abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Porta con sé una difficoltà maggiore, perché non hai una visione del passato, devi creare personaggi che vivono nel presente e devi cercare di caratterizzarli interiormente attraverso gli abiti. I costumi d’epoca sono chiusi in un mondo passato, e sono il mio pane: li ho sempre studiati. Trovare idee per il contemporaneo, invece, per me è sempre più difficile. Per questo mi ha sorpreso che l’EFA sia arrivato per Dogman. Me lo sarei aspettato per un film come Il racconto dei racconti.

Con l'EFA vinto per Dogman nel 2018 © Cellesar
Con l'EFA vinto per Dogman nel 2018 © Cellesar

Dove tieni l’European Film Award?

Su un mobile davanti al letto: tutti i premi sono nella parte privata della casa.

Qual è stato il mix fra ricerca storica e fantasia, quando hai creato i costumi di Pinocchio?

Matteo Garrone ha rappresentato per la prima volta con grande fedeltà il libro di Collodi. Ho studiato le immagini che l’autore scelse per le prime illustrazioni. Il mix giusto è arrivato grazie alla cultura visiva di storia del costume: puoi stravolgere la conoscenza solo se la possiedi, se la padroneggi bene. La conoscenza del proprio lavoro, del resto, è fondamentale per farlo bene. Matteo voleva attenersi alla verità del racconto di Collodi, pur con i suoi tratti gotici. Per questo ho guardato molto anche alla fotografia: ha una verità che manca ai dipinti.

Conservi qualcuno dei tuoi costumi?

Porto sempre con me qualcosa dal set dei film che faccio. Colleziono abiti d’epoca e mi piace l’idea che qualche pezzo iconico rimanga a me. Anche per poterli tramandare.

Ti sorprendi a volte vedendo un abito finito?

Sì, capita. I disegni sono un ideale, come i quadri. Durante la lavorazione spesso li cambio, apporto modifiche. Sono più felice nel vedere gli abiti veri, in stoffa, piuttosto che dei disegni: quando prendono vita sullo schermo, cambia tutto.

C’è una storia per cui vorresti creare i costumi?

Adoro le ambientazioni vittoriane della borghesia nei romanzi di Edward Morgan Forster. Sarebbe una bella sfida creare i costumi per l’adattamento di un suo libro.

Per Pinocchio sei stato candidato anche al Costume Designers Guild Award, il premio del sindacato dei costumisti. Un riconoscimento che viene dai tuoi pari è un onore più grande?

I premi sono tutti importanti perché è sempre bello vedere il proprio lavoro riconosciuto. Soprattutto se un premio o una nomination arriva da dei colleghi, come è successo con il Costume Designers Guild Award.

La nomination all’Oscar è arrivata in un momento difficile. Hai festeggiato comunque?

Ho gioito a metà. Ho amici che fanno mestieri diversi dal mio e che sono in difficoltà: sbandierare il mio successo sarebbe stato di cattivo gusto. Resto coi piedi per terra. Del resto, i premi sono un punto di partenza.

Mettono pressione?

Non sono abituato a essere al centro dell’attenzione. Non festeggio nemmeno i compleanni per non esserlo! Il successo arrivato con Pinocchio è bellissimo, ma io sono un po’ orso: sono molto riservato, anche nel mio lavoro. Tutto questo non fa che aumentare la mia timidezza: non sono mai stato bravo a vendermi.

Sei timido?

Da morire.

Non riuscirai ad andare a Los Angeles per la cerimonia?

Non ce lo permettono: saranno pochissimi gli europei a riuscirci. Vivremo l’esperienza in modo più freddo, perché l’emozione vera può esserci solo in presenza. Quando si avvicinerà la chiamata delle cinquine ci sarà comunque batticuore, anche se non mi aspetto assolutamente di vincere, ma se fossi stato a Los Angeles sarebbe stato maggiore.

Massimo, ti dispiace?

Certo: è un grande dispiacere. Non capita tutti gli anni di essere candidato all’Oscar. È un peccato che sia successo proprio quest’anno. A mancarmi sarà soprattutto il lato glamour. Andai agli Oscar con Gabriella Pescucci quando fu candidata per La fabbrica di cioccolato: so cosa vuol dire vivere la big night, le feste, il backstage. Quest’anno, in ogni caso, sarebbe possibile fare ben poco, anche se fossi a Los Angeles. Forse rimanere in Italia è meglio, tutto sommato.

Conosci qualcuno degli altri candidati per i migliori costumi?

Conosco personalmente Ann Roth. Fantastica. È venuta tante volte a fare i costumi alla Tirelli, abbiamo anche pranzato insieme, è una donna simpaticissima.



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