Venti mesi dopo Martin Luther King, fu assassinato un altro “Black Messiah”. Fred Hampton, attivista americano e leader del Black Panther Party nello stato dell’Illinois, perse la vita in un raid dell’FBI alla vigilia di una svolta storica per l’organizzazione “black power” che rappresentava: la fusione con una gang da migliaia di seguaci, che avrebbe dato vita a un movimento di maggior peso specifico.

Il Giuda del titolo fu William O’Neil, ladruncolo di periferia con l’abilità (pare) di spaventare le vittime con un finto badge da poliziotto invece che con una pistola (perché “un distintivo fa più paura di una pistola: è come se avessi dietro un esercito intero”). Incastrato dall’FBI, O’Neil barattò la pena con l’offerta di diventare una talpa e infiltrarsi fra le Pantere.

Cupo, livido, di una solennità a tratti marmorea, il film di Shaka King (al suo secondo lungometraggio da regista sette anni dopo Newlyweeds) realizza l’affresco di un doppio gioco sofferto e decisamente pericoloso. Mettendo in luce anche – o soprattutto? – la sociologica contrapposizione di Erving Goffman fra scena e retroscena. E lo fa per entrambi i protagonisti del titolo. Mostra il dilemma interiore, legato non solo all’etica ma anche alla paura, di William O’Neil, reso quasi isterico dall’ansia eppure costretto a continuare nella parte di un ardente adepto: un ruolo cui finirà per credere? Allo stesso tempo contrappone il Fred Hampton pubblico – acceso, inflessibile, persuasivo – e quello privato, inaspettatamente timido.

Judas and the Black Messiah

Il dubbio morale di O’Neil, però, non esce completamente risolto dall’approccio di Shaka King, che ha anche co-sceneggiato Judas and the Black Messiah con Will Berson. L’ambiguità che ne muove le azioni finisce per restare sfocata; catalizza interesse nel tormento iniziale, ma non si scioglie se non in una postilla, che arriva a fine film in forma scritta e giudicante: un riferimento al fatto che O’Neil morì suicida poco dopo la messa in onda del documentario Eyes on the Prize II, cui concesse una lunga intervista su come fu assoldato dall’FBI e sul ruolo avuto nell’incastrare Hampton (per la cronaca, O’Neil fu investito da una macchina nel traffico; il caso fu archiviato come suicidio, sua moglie disse invece che si trattò di un incidente).

Paradossalmente, la verità della figura di Fred Hampton esce molto meglio dalla rappresentazione della sua dimensione personale, del retroscena goffmaniano. Soprattutto nella relazione con la fidanzata Deborah Johnson, che sarà madre di un figlio che Hampton non riuscirà a conoscere, raccontata con inaspettata tenerezza.

La complessità delle dinamiche interne al Black Panther Party ha invece un contraltare fin troppo unidimensionale nel ritratto a carboncino di un FBI degenerato e corrotto, incarnato da J. Edgar Hoover che ha il volto trasformato dal make-up di Martin Sheen, reso più simile a un malvagio Nosferatu.

Judas and the Black Messiah

Anche per questo Judas and the Black Messiah procede a ritmo incostante sulle rotaie di una sceneggiatura che ora vuol far fremere d’indignazione e ora inciampa in stereotipi anche nel rappresentare l’enigmatica doppiezza di alcune figure. È sempre più difficile, così, trovare empatia in un raccolto spesso improntato a un’imponenza violenta e gelida, a tratti stinta.

Efficace in questo senso si rivela però la plumbea fotografia di Sean Bobbitt (12 anni schiavo), con la sua notevole paletta di blu e verdi diafani.

Sei nomination all’Oscar: per il film e la sceneggiatura originale (ma non per la regia), per la fotografia, la canzone “Fight for You” e per i due personaggi principali, curiosamente entrambi in corsa come non protagonisti. Daniel Kaluuya nel ruolo di un Fred Hampton duro, allergico al compromesso; e LaKeith Stanfield che veste i panni di William O’Neil, più inquieto, ombroso, umorale. Un’interpretazione che, pur sentendo la mancanza di un respiro più ampio in sceneggiatura, acquista statura da protagonista anche se l’Academy l’ha portata alla ribalta fra i Supporting Roles (a sorpresa: Stanfield non è stato candidato a nessuno dei precedenti premi di peso, dai Golden Globe ai Critics’ Choice Award, dai SAG ai BAFTA).

Toccante e autentica anche la prova di Dominique Fishback che interpreta Deborah Johnson, candidata al BAFTA come migliore attrice non protagonista.



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