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Kira Georgievna — Viktor Nekrasov

Einaudi; traduzione di Claudio Masetti / Editori Riuniti; traduzione di Giovanni Crino.

Il successo di Elena Ferrante nel mercato internazionale, in special modo quello statunitense, ha portato a un’ondata di nuove traduzioni dall’italiano; a beneficiarne sembra che sia stata soprattutto una delle maggiori voci del nostro Novecento letterario, Natalia Ginzburg. Questo meccanismo, che si manifesta anche da noi con modalità paragonabili (è sufficiente pensare al proliferare di gialli scandinavi e di manuali giapponesi per riordinare), non è per forza da stigmatizzare, però vale la pena chiedersi: quale immagine di un certo paese o di una certa cultura viene ricercata o sta avendo successo?

Sono domande che mi sono posta mentre leggevo Kira Georgievna di Viktor Nekrasov. È stato pubblicato, in patria e in Italia, nel 1961, appena cinque anni dopo due eventi di importanza fondamentale avvenuti nel 1956: il discorso con cui Nikita Chruščëv rivelava le atrocità del periodo stalinista (Stalin era morto nel 1953) e la violenta repressione militare attuata dall’Unione Sovietica e sostenuta dai partiti comunisti di Italia e Francia contro la rivoluzione ungherese. 

Il breve romanzo di Nekrasov, subito tradotto in italiano da ben due case editrici (Einaudi ingaggia Claudio Masetti, Editori Riuniti si affida a Giovanni Crino), racconta un’esperienza che deve essere stata piuttosto comune: l’incontro tra Kira, ormai diventata una scultrice affermata, e il suo primo marito Vadim, da poco riabilitato dopo lunghi anni di prigionia nella Kolyma, una regione dell’estremo nord russo nota per l’estrema rigidità del clima e per le durissime condizioni di vita.

Sul finire degli anni ’50, Kira vive a Mosca con il secondo marito, il pittore e accademico Nikolaj Obolenskij, grazie al quale si è inserita senza grandi sforzi nel mondo scintillante e un po’ meschino dell’arte ufficiale. Un lavoro soddisfacente, una bellezza ancora giovanile, nessun problema economico, un marito che la ama e a cui lei vuole bene, un giovane amante di nome Juročka che le fa da modello: la sua esistenza, di enorme privilegio per quel contesto socioeconomico, si accorda molto bene con la sua vitalità spensierata. L’apparizione di Vadim, giunto nella capitale per sbrigare alcune pratiche relative alla sua liberazione, riporta alla luce il passato che i due condividono.

Nel 1937, anno in cui il terrore parossistico delle grandi purghe staliniane raggiunse l’apice, un numero elevatissimo (secondo lo studioso Andrea Graziosi quasi un milione) di persone veniva arrestato su basi spesso labili, in maniera da perseguire tre obiettivi principali: sopprimere ogni forma di dissenso, controllare chi occupava i posti di comando con la minaccia della delazione e procurarsi la manodopera necessaria per estrarre le ingenti risorse minerarie della Siberia. Vadim, un ventenne poeta squattrinato di Kiev che lavora nel cinema e si è da poco sposato con Kira, è una delle molte vittime innocenti del regime: sebbene non sia nemmeno un attivista politico, viene torturato e mandato in un gulag con poche possibilità di far avere sue notizie, se non che considera la giovane moglie libera da qualsiasi obbligo nei suoi confronti. Anche per Kira, appena diciannovenne, l’orizzonte si incupisce: poiché è sposata a un “nemico del popolo”, viene espulsa dall’istituto d’arte che frequenta; più avanti, dovrà fare fronte al mantenimento della madre e del fratello minore durante l’occupazione tedesca.

Nekrasov sottolinea di frequente come i quattro personaggi principali siano separati da un ventennio: il più anziano, Nikolaj, è nato alla fine del XIX secolo, quando viene fondato il Partito operaio socialdemocratico, e sarà allievo di Michail Nesterov; Kira e Vadim, entrambi figli della Rivoluzione, entreranno a contatto con registi celebri come Eisenstein e Dovženko; Juročka, venuto al mondo nei cruenti anni Trenta, vive l’era del “disgelo”

“Ma vi avevano messo dentro ingiustamente?”
“Sì, ingiustamente.”
“Quindi adesso…” Juročka era perfino arrossito e la tensione gli aveva imperlato di sudore la fronte. “Ma come mai… Come mai non siete pieno di rancore?”
Vadim capì. Lui stesso si era posto più volte questa domanda, e gliel’avevano fatta anche altri. Sì, l’avevano messo dentro a ventun anni, a occhio e croce, quanti ne aveva adesso Juročka. L’avevano imprigionato ingiustamente, come aveva detto Juročka. E quindi aveva trascorso tanta parte della sua vita, senza nemmeno il sollievo di soffrire per una causa, per un’idea… Aveva patito senza motivo. Ora, era stato rimesso in libertà, e gli si veniva a chiedere come mai non provasse rancore! Forse, era strano, ma non ne provava. E, d’altronde, ne aveva mai provato? Beh, forse sì… Aveva provato di tutto. Ma adesso… Adesso era diverso. Perché? Forse per la gioia di non essere morto, di essere tornato, di aver conservato le proprie forze, di potersene stare seduto a ragionare serenamente, del più e del meno, fumando in pace. O forse perché non era stata una sua disgrazia personale, ma la tragedia di tutto un popolo, che lui aveva condiviso con questo popolo. Difficile dire perché… O, forse, perché era convinto che il passato non poteva ripetersi.
“Non può ripetersi.” aveva detto Vadim guardando Juročka, che continuava a restar seduto con le braccia intorno alle ginocchia, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un istante. “Capisci? Non può più ripetersi!”
Ci fu quindi un lungo silenzio. Vadim pensava a Juročka e alla sua generazione, una generazione di giovani per i quali il 1937 era solo storia ormai. Pensava anche a Kira. Chissà se, modellando con la creta quel giovanotto così tranquillo, con la testa fieramente alzata, Kira avesse mai pensato a ciò che succedeva nella mente di quel ragazzo ventunenne, che alla morte di Stalin aveva solo sedici anni e che sicuramente aveva pianto per quella morte temendo che segnasse la fine di tutto. Nel guardare Juročka seduto accanto a sé, quel giovane pieno di interrogativi e sempre in attesa di risposte, pieno di fede e di dubbi, bramoso di raccapezzarsi in cose tanto incomprensibili e tuttavia così importanti, Vadim pensò forse per la prima volta: possibile che Kira sostituisca nella sua arte tutto ciò che è vivo e complicato con qualcosa che vi assomiglia solo esteriormente, ma che in effetti è artificioso e convenzionale sul piano spirituale? E poi era così soltanto nell’arte?

Kira è una cattiva scultrice? Forse sì: è perfettamente integrata in un sistema autoritario che le dimostra stima e le garantisce un ottimo stipendio, senza che lei sembri percepire in alcun modo la situazione che la circonda. Non che Kira sia una sciocca: è una sopravvissuta che ha deciso di andare avanti per non vedere e di non vedere per andare avanti. Vadim, al contrario, è stato obbligato a vedere; a differenza di altre persone non è tornato con l’anima spezzata o il corpo menomato, eppure l’esperienza del gulag ha deviato la sua vita senza possibilità di rimedio, creando una cesura che, sebbene non più dolorosa, egli ha bisogno di riconoscere con un allontanamento dalla sua giovinezza che diventa concreto quando rinuncia alle sue ambizioni artistiche e a Kira, dopo aver tentato di riprendere la relazione durante una breve permanenza in Ucraina.

C’è un film di Liliana Cavani intitolato Galileo, dove la regista, al suo esordio cinematografico, mette a confronto Galileo Galilei, che ripudiò le proprie teorie eliocentriche per salvarsi la vita, e Giordano Bruno, che rifiutò di abiurare e venne arso al rogo. Cavani non si abbandona a dicotomie superficiali, Galilei furbo/Bruno ingenuo oppure Galilei vigliacco/Bruno martire, perché la sua attenzione è puntata verso i meccanismi oscurantisti dell’Inquisizione, che ha cercato di stritolare entrambi. Viktor Nekrasov possiede lo stesso sguardo d’insieme: Kira e Vadim sono stati trascinati dal loro tempo e le loro scelte hanno contato poco di fronte al caos stalinista. 

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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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