Fa impressione, The Witch. Fa impressione più per ciò che cela, che tace, che ammutolisce nel perturbante, nelle tenebre, che per ciò che (con sublime, raffinata efferatezza) mostra. La storia di un padre, una madre e i quattro figli, isolati dalla loro comunità e presi di mira da una serie di inquietanti eventi, che l’esordiente Robert Eggers ci sussurra all’orecchio con impietosa maestria, si rivela presto allegoria di un preciso stato culturale, della famiglia mononucleare come coacervo di pulsioni represse, impulsi incestuosi, incubi primordiali.

In The Witch l’indottrinamento religioso – un incessante lavaggio del cervello – plasma tutt’intorno a sé l’insidiosa follia ben presto dilagante, e il panorama maledetto è soprattutto interiore: raffigurazione di un malessere e una distorsione di realtà che mutano rapidamente il segno del racconto, da favola nera (A New-England Folktale, appunto) diventa tragedia macabra.

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Si respirano chiaramente gli elementi archetipici del genere (il bosco, la casa solitaria, il caprone, la final girl), schizzati contro un fondale oscuro che ricorda un dipinto di Goya più che mai materico, adagiati su un tessuto sonoro impressionista, ma Eggers va al di là, schierando in primo piano i bambini, macchiati di un presunto peccato originale (pre-innestato), che si ritrovano loro malgrado personaggi di una mitopoietica mefitica e inculcata a forza nella loro mentalità infantile. Annaspano in mistificazioni litaniche e mortificanti (l’inconsolabile terrore di Caleb e sua madre, angosciati all’idea che il neonato smarrito sia finito all’inferno, le accuse vicendevoli dei gemelli ai danni di Thomasin), e insieme ai loro genitori vengono progressivamente risucchiati dall’urgenza di individuare un responsabile, dal contagio del senso di colpa, dal sentore del maligno che si impadronisce del quotidiano, dalla natura pacifica che gli si rivolta contro.

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E così il bosco, con in seno la sua creatura strisciante e distruttiva, di sembianze seducenti e cuore malato, diventa covo della consapevolezza di un Male primigenio e immarcescibile, ma anche di una convinzione strisciante sottopelle (riflesso della religione ossessiva dei protagonisti) che si nutre del sangue dei più innocenti, non concede distrazioni (chi distoglie lo sguardo viene punito), comunica attraverso simulacri selvaggi e presagi mortiferi (il pulcino morto, il sangue della capra), e chi gli sopravvive – una fanciulla dall’anima maciullata – non può che unirsi al delirio avverso e alla pazzia, consegnarsi all’irrazionale (con eroica rassegnazione, à la Yates), come un’ultima spiaggia bruciata, in attesa, infine, di divorare a sua volta.



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