Il Festival internazionale del cinema di San Sebastián ha spento settanta candeline. Difficilmente avrebbe potuto farlo con un’edizione migliore, considerate le circostanze e i mezzi.

Un Festival, soprattutto se frequentato da grandi star, è un calderone di gestione difficilissima, in cui non tutto può andare secondo i piani. Ma, con il suo mix di glamour, relax e amore per il cinema, San Sebastián ha compiuto settant’anni confermandosi una delle kermesse più vive del momento.

Quasi impossibile pensare a un’immagine migliore: Juliette Binoche che trionfa sulla locandina, con le lunghe lettere maiuscole JULIETTE che sembrano tasti di un pianoforte. Il suo viso anche sul famosissimo Kursaal, cuore pulsante del Festival, affacciato sul mar Cantabrico e sulla foce dell’Urumea.

La Binoche ha ricevuto quest’anno il Premio Donostia, il riconoscimento alla carriera del Festival che negli anni è andato anche a Bette Davis, Lauren Bacall, Robert Mitchum, Warren Beatty, Vanessa Redgrave, Anthony Hopkins e Meryl Streep. L’altro Donostia è andato a David Cronenberg. Un binomio deluxe che coniuga divismo e passione cinefila.

Ed è difficile pensare anche a un meccanismo festivaliero più indovinato. Anche se la selezione ufficiale che compete per la Conchiglia d’oro (un premio che è un omaggio alla natura costiera di San Sebastián oltre che alla sua baia a forma di conchiglia) è meno luccicante, meno ostentatamente filo-hollywoodiana rispetto a quelle di altri Festival autunnali che in qualche modo aprono la Award Season diretta agli Oscar.

Quest’anno, l’unica produzione patinata in concorso è stata l’interessante The Wonder di Sebastián Lelio con Florence Pugh, in arrivo su Netflix a metà novembre. Per il resto, la selezione ha parlato cinese, francese, danese, coreano, giapponese e, inevitabilmente, spagnolo senza forti rimandi divistici.

La polemica, come a ogni Festival che si rispetti, l’ha portata il celeberrimo regista austriaco Ulrich Seidl. Il suo Sparta è stato buttato fuori da Toronto: la storia segue un pedofilo che non aggredisce ma ama fotografare e intrattenersi con i bambini, e apre una sorta di campo estivo che vuole essere scuola per guerrieri in un borgo rumeno. Per Toronto il film ha sfruttato attori minori e non professionisti senza tutelarli. San Sebastián ha deciso che solo l’ordinanza di un giudice avrebbe fermato la prima mondiale di Sparta al Festival.

Sparta è teso e disturbante, anche se mai violento. La regia non è memorabile. La giuria, così, ha guardato altrove.

Vincitore. “The Kings Of The World” ha ottenuto la Conchiglia d’oro per il miglior film (© Alex Abril)

 

Guidati dal produttore argentino Matías Mosteirín dopo il forfait last-minute di Glenn Close, impossibilitata a raggiungere San Sebastián da “un’emergenza familiare”, i giurati hanno assegnato la Conchiglia d’oro al confuso The Kings of the World della colombiana Laura Mora. Una co-produzione lussemburghese, francese, messicana e norvegese paragonata a una moderna Odissea: cinque amici adolescenti lasciano le strade di Medellín per un viaggio verso le terre che uno di loro deve ereditare. Ora sovraeccitato e ora spento, il film fatica a trovare una struttura organica. Una vittoria inattesa che lo scorso 24 settembre, in sala stampa, ha portato con sé più stupore che applausi.

Il Premio speciale della giuria è andato a Runner della newyorkese Marian Mathias: solo 76 (ma lunghissimi) minuti su due anime sole che si incontrano nel Midwest rurale, livido e greve. La diciottenne Haas è in viaggio per seppellire suo padre, Will lavora lontano da casa per mantenere la famiglia d’origine. Una pellicola in cui non sempre la forza delle immagini sa riempire i vuoti di sceneggiatura, ma che la giuria ha apprezzato per il suo potenziale espressivo.

È forse il miglior film della selezione ufficiale a vincere la Conchiglia d’argento per la migliore regia: trionfa il giapponese Genki Kawamura (alla sua prima regia di un lungometraggio) con lo struggente A Hundred Flowers, sul rapporto fra un figlio e una madre consumata dall’Alzheimer.

Miglior regista. Genki Kawamura ha vinto per “A Hundred Flowers” (© Pablo Gómez)

 

Sulle interpretazioni, San Sebastián ha seguito Berlino. Da quest’anno non ci sono più un miglior attore e una migliore attrice, ma un’interpretazione protagonista e una non protagonista.

La Conchiglia d’argento per la migliore interpretazione protagonista vede un ex-aequo giovanissimo, nemmeno trentacinque anni in due: il ventenne Paul Kircher, protagonista del profondo Le Lycéen (Winter Boy), e la quattordicenne Carla Quilez per il suo debutto nell’applauditissimo La Maternal.

Migliore non protagonista è un’altra debuttante: la giovanissima Renata Lerman per l’argentino El Suplente.

Ha sollevato qualche dubbio il premio alla sceneggiatura al cinese A Woman di Wang Chao, a tratti prolisso ma in definitiva sincero e ben costruito.

Lo scintillio stellare è passato quasi sempre fuori concorso. Oltre a Binoche, celebrata con la proiezione di Avec amour et acharnement di Claire Denis ma che ha accompagnato anche Le Lycéen, e a Cronenberg, che ha portato al Festival Crimes of the Future, il parterre della sezione Perlak (dedicata a grandi film dell’anno già amati dalla critica o applauditi ad altri festival ma ancora inediti in Spagna) ha scatenato gli entusiasmi dei fan.

Ozon ha portato Peter von Kant, accompagnato da Hanna Schygulla. Koreeda è stato applaudito per il suo Broker. Iñárritu è passato con Bardo, False Chronicle of a Handful of Truths. Olivia Wilde ha presentato la sua seconda regia, Don’t Worry Darling. Louis Garrel è arrivato in città con L’innocent.

Poteva bastare? Ovviamente no. Così il film sorpresa è stato Blonde di Andrew Dominik, in cui Ana de Armas interpreta Marilyn Monroe. Ricardo Darín è stato l’orgoglioso protagonista di Argentina, 1985, e Penélope Cruz la diva che ha trascinato On the Fringe. Sugli schermi si sono visti l’inglese Living, interpretato da Bill Nighy e sceneggiato dal premio Nobel Kazuo Ishiguro, e il documentario su David Bowie Moonage Daydream. Vicky Krieps, già star del Filo nascosto di Paul Thomas Anderson, è stata al Festival come imperatrice Sissi nel moderno biopic Corsage.

Ma uno dei giorni più attesi è stato quello finale: non solo per i premi, ma anche per la prima mondiale di Marlowe di Neil Jordan, film di chiusura della selezione ufficiale, moderno noir sull’investigatore nato dalla penna di Raymond Chandler che indaga su un intrigo fatto di droga e omicidi nella Los Angeles degli anni Cinquanta. I protagonisti Liam Neeson e Diane Kruger hanno fatto tremare San Sebastián a suon di selfie.

Prima mondiale. “Marlowe” di Neil Jordan ha chiuso il SSIFF (© Jorge Fuembuena)

 

Eppure il Festival spagnolo non è mai arcigno. Non è fatto di lunghe code come Cannes (forse anche per via dell’abitudine, figlia del COVID, di dover prenotare il posto per ogni visione?), non è ingestibile come Venezia, dove i vip-watcher diventano violenti nei luoghi angusti del Lido.

San Sebastián è forse la città più accogliente per un Festival, insieme a Toronto. Per gli spazi ampi, i bar e i ristoranti a ogni angolo che offrono possibilità infinite senza file, l’organizzazione rigorosa ma sorridente, in cui il lavoro sa divertire. E la passione cinefila che si respira a ogni angolo dà benzina anche dopo proiezioni difficili, carenza di sonno o pasti rimandati (un latte macchiato al corner Nespresso nella press lounge e via) per poter vedere un film in più.

 

Nell’immagine principale, Juliette Binoche (© Pablo Gómez)



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