A metà strada fra The Truman Show e The Stepford Wives (in Italia La donna perfetta), ma senza ironia: la seconda regia di Olivia Wilde rifiuta la commedia, nonostante i precedenti cui è inevitabile pensare. Psico-dramma allucinato che tiene il thriller a portata di mano e non rifiuta venature horror, Don’t Worry Darling arriva fra i titoli più attesi del fuori concorso al Festival Internazionale di San Sebastián e, se l’importante è che se ne parli, ci sbarca con un obiettivo già centrato. Le controversie legate al film ne precedono la fama: prima la sostituzione di Shia LaBeouf con Harry Styles, poi la ruggine tra la Wilde e la protagonista Florence Pugh.

Pugh e Style sono marito e moglie in una Pleasantville (il film di Gary Ross del ’98 suona come una valida citazione a livello narrativo, anche se non stilistico) vagamente inquietante. Vivono in un quartiere residenziale isolato da tutto, nel bel mezzo del deserto. Ogni mattina, nel vicinato, gli uomini mettono in moto le auto pastello in sincrono per uscire e andare a lavorare al fantomatico e misterioso Victory Project. A casa, le mogli incarnano l’ideale delle housewife da rivista: rifanno il letto, puliscono la vasca da bagno e, se escono di casa, è per fare shopping o frequentare un improbabile corso di danza.

Sulla colonia regnano il sardonico Chris Pine e signora, che guidano la comunità come due guru motivazionali. Ma quando la scettica amica KiKi Layne, capendo che qualcosa non va, viene additata come pazza con successivi risvolti poco incoraggianti, le certezze della moglie perfetta iniziano a vacillare.

Cosa c’è dietro tutto quell’ordine innaturale? Cosa sono i flashback che riaffiorano in modo confuso, e quel motivetto che viene spontaneo canticchiare ma che ha origine ignota?

Che i dubbi della povera Florence Pugh non siano paranoie si capisce (quasi) subito. Don’t Worry Darling non gioca ad essere quello che non è: le sorprese, man mano che il film procede, diventano tali sono a metà. Il senso di strisciante inquietudine di cui la Wilde dissemina la parte iniziale del film prima che prenda velocità è efficace, ma in qualche modo convenzionale. Non è difficile capire dove si andrà a parare.

Così, la metafora femminista riesce solo in parte. La non-verosimiglianza plastica delle scene suggerisce il senso di soffocamento latente, il malessere ingiusto di una moglie giovane e costretta a essere solo il principale oggetto del décor domestico, la cui missione principale è quella di marinare una bistecca o di cuocere le uova.

L’insistere di Don’t Worry Darling sul rito del cibo, del resto, ce lo ricorda. Le fasi del film, così come le giornate, sono scandite dalle plongée sulle tazze riempite di caffè o sul bacon che frigge, e sono spesso i pasti ad accompagnare gli snodi narrativi, come la cena attorno alla tavola imbandita in cui la protagonista vuota il sacco dei dubbi e dei conti che non tornano.

Ma il j’accuse contro la violenza maschile – che qui in origine non è solo fisica – e contro il maschilismo che ancora è spaventato dall’emancipazione femminile piove su un finale vagamente affrettato, e forse troppo tardi.

Così, il film finisce per funzionare solo se visto come una variazione sul tema del thriller, un marchingegno da divertimento cinematografico che regge più di due ore senza infiacchirsi.



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