In tempo di pandemia non è Hollywood ad aprire la Mostra del cinema di Venezia, ma il più internazionale e hollywoodiano dei registi spagnoli: Pedro Almodóvar (che dopotutto sulle mensole di casa ha anche un Oscar, vinto per la sceneggiatura di Parla con lei) è protagonista di un taglio del nastro molto europeo nel portare in laguna il suo Madres paralelas.
Europea e vincitrice dell’Oscar anche la sua musa, chiamata nuovamente a caricarsi sulle spalle il ruolo della protagonista, Penélope Cruz. Nel film – girato in circa dieci settimane nella primavera del 2021 – interpreta Janis, una fotografa di successo che, alla vigilia dei quarant’anni, si ritrova madre single dopo un’avventura, apparentemente finita male, con l’antropologo che ha accettato di aiutarla a scoprire la fossa comune in cui i franchisti seppellirono suo nonno dopo la fucilazione, insieme ad altri uomini del villaggio della sua infanzia.
Il parallelismo del titolo è quello con Ana (Milena Smit), altrettanto single ma minorenne, che vive la maternità con un investimento emotivo decisamente più negativo. Compagne di stanza e di doglie, Janis e Ana restano in contatto dopo le dimissioni. I loro destini di madre si incroceranno di nuovo, con inattesi risvolti tragici da cui – forse – sapranno uscire migliori. Di certo più consapevoli.
Dramma umano e storico, pista impegnata che si rivela uno spunto destinato a riemergere solo in un finale lucido, di luminosità cristallina (anche in senso letterale): Madres paralelas fa più che graffiare.
A Venezia si spreca la metafora della zampata del leone. Almodóvar però opta per una raffinatezza che rifiuta il grottesco, orchestrando una melodia filmica ritmata ma senza eccessi di visione. Da un punto di vista solo stilistico, soprattutto nell’uso degli interni, il film può ricordare La pelle che abito, l’interessante dramma – vagamente disturbante – che Antonio Banderas interpretò nel 2011 e che l’anno successivo vinse il BAFTA come miglior film straniero. Ma l’irrealistico non trova spazio in Madres paralelas.
C’è una squisita riflessione sulla società che fa i conti con le colpe del passato, nei confronti delle quali le culture nazionali hanno spesso qualche posizione istintivamente refrattaria, e un doversi confrontare con le conseguenze delle proprie azioni che dal piano storico passa a quello personale. Ce lo ricorda non solo la vicenda delle due madri, ma anche quella dell’elegantissima nonna Aitana Sánchez-Gijón, ossia la madre di Ana che, nonostante tutto, non rinuncia a una tournée teatrale per non bruciare il tardivo successo come attrice.
Così, sintonizzandosi ancora una volta sulle frequenze di un universo (quasi) interamente femminile, Pedro Almodóvar riesce a girare un film solido e coeso, la cui durezza non diventa mai amara.
Vissuto da una Cruz che secondo molti non sfigurerebbe nel medagliere con una Coppa Volpi per la miglior attrice (ma la Mostra è solo all’inizio), il film diventa una creazione agrodolce che dribbla l’effetto melò pur nel raccontare i piccoli o giganteschi drammi personali. Di fronte a cui, dopotutto, le soluzioni sono spesso solo due. Piangere e lamentarsi, che in fondo sono inconsapevoli strumenti per farsi andare bene le cose e tirare avanti. Oppure trasformare la frustrazione in proattività, capace di trovare nuove ragioni per soluzioni altrettanto nuove.
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