Tornata a New York da Cannes con un premio per la miglior regia che forse non ha meritato del tutto, Sofia Coppola esce in Italia con il suo settimo film: L’Inganno, tratto dal romanzo A Painted Devil di Thomas P. Cullinan, che già aveva ispirato (nel 1971) il bellissimo e perverso La Notte Brava Del Soldato Jonathan, di Don Siegel con uno straordinario Clint Eastwood.
Ma Sofia non vuole che si parli di remake. Lo ha detto chiaramente, la figlia di mister Francis Ford. Per lei L’Inganno non è un remake, casomai è un secondo adattamento di quello stesso libro che più di quarant’anni fa aveva attirato su di se le attenzioni del regista di Fuga Da Alcatraz.

E già qui casca l’asino, perché cinematograficamente parlando definire L’Inganno un remake de La Notte Brava Del Soldato Jonathan non è solo lecito, ma addirittura ineccepibile: alcune scene sono identiche, alcune battute sono identiche, alcune inquadrature sono identiche (perfino il titolo originale, The Beguiled, è identico).
La differenza fra i due film è essenzialmente una: L’Inganno è un film di Sofia Coppola, mentre La Notte Brava Del Soldato Jonathan fu diretto dallo stesso personaggio che diresse Il Caso Scorpio E’ Tuo; due modi di fare cinema completamente opposti, uno sporco, cinico, impulsivo, l’altro composto, garbato, elegante.
Il punto è proprio questo, forse. L’Inganno è un film elegante, estremamente elegante, sempre elegante, fin troppo elegante. È elegante perfino nel volersi definire “un secondo adattamento”, troppo schizzinoso e signorile per un termine plebeo come “remake”.
Ma andiamo con ordine.
1864. La guerra civile americana è agli sgoccioli, e un soldato nordista si ritrova ferito nei pressi di un piccolo collegio femminile sudista sperduto fra le fronde di una natura rigogliosa e incontaminata. Soccorso da una delle studentesse più piccole, il soldato verrà portato all’interno del collegio, dove gli sarà salvata la vita e, in attesa di una completa guarigione, gli sarà concesso di trovare rifugio dagli scontri che imperversano nei dintorni.
Il film, come già detto, è un film di Sofia Coppola. Nel bene e nel male.

L’analisi psicologica e caratteriale dei personaggi è sottile (un termine elegante – ancora questa parola – per blanda), c’è poca conflittualità (soprattutto in relazione al gruppo femminile) e si farà molta fatica a trovare traccia di profondità, che la si ricerchi sotto il punto di vista emotivo o sotto quello intellettuale.

E’ un film d’ornamenti, un film di abiti d’epoca e decorazioni, di dipinti alle pareti, di merletti; è un film, come l’ho già definito altrove, da mignolo sollevato e bon ton, che bada molto all’apparenza e molto poco alla sostanza.
Qualcuno lo ha definito un film femminista, ma è difficile capire il perché: le donne che la Coppola ritrae (sono sette, le inquiline del collegio, ma le uniche che abbiano una rilevanza ai fini narrativi sono la Kidman, la Dunst, la Fanning e la giovane Oona Laurence) sono esseri spregevoli, avvoltoi che ronzano intorno ad una preda, bimbe petulanti che si litigano un giocattolo.

Il soldato è, ovviamente lo sapete, Colin Farrell. Ed anche all’apice della sua performance (nella scena che dovrebbe essere un climax, ma che a causa dei ritmi contemplativi tanto climax non sembra) il pubblico farà davvero fatica a trovare in lui delle antipatie. Il povero caporale John McBurney (che viene dall’Irlanda, per dare un’origine all’accento dell’attore) per la maggior parte del tempo non darà mai la sensazione di essere il vizio fatto carne arrivato a sconquassare gli equilibri della casa; è semmai il semplice oggetto del desiderio di queste raccapriccianti creature tutte risatine stridule e frecciatine glaciali, quasi sempre antipatiche, spesso e volentieri assurdamente inette (il personaggio della Dunst le supera tutte: non è neppure capace di decidere da sola se le piacciono o meno i funghi, e più di questo non posso dire).

Il film quindi è molto ambiguo nei confronti della figura della donna e anzi spesso e volentieri calca la mano sull’importanza quasi necessaria che ha la presenza dell’uomo maschio sul mondo femminile. Poteva essere un thriller, doveva essere un erotico, con un po’ di coraggio sarebbe potuto essere benissimo entrambe le cose (se volete gustarvi un’opera del genere, recuperate lo splendido, scabroso e provocatorio Lady Macbeth di William Oldroyd) e invece non è niente di tutto ciò.
Non c’è verve, non c’è tensione, non c’è pulsione. Ci sono i vestiti, tutti bellissimi, e magari ci sarà una candidatura agli Oscar nella categoria apposita (potrebbe arrivare anche nella fotografia). Ma siamo molto più dalle parti di Marie Antoinette che da quelle di Lost in Translation.



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