Se c’è una cosa che apprezzo nei film di Edgar Wright – che personalmente considero gioiellini inestimabili – è quel particolare potere che, proprio delle realtà presentate e delle vicende narrate (di cui i personaggi sono in balia), passa nelle mani di improbabili protagonisti trasformandoli in deuses ex machina, manipolatori di storie(lle) sempre più inverosimili, sempre più sfocate e sbiadite, sempre meno importanti o necessariamente ultimabili. Ne resterà soltanto uno, ci suggerisce da un decennio a questa parte Edgar Wright, e quell’uno è uno di noi, un tipo comune, qualcuno impreparato alla vita, alle sue rigide impostazioni e ai suoi ritmi scanditi. Con Baby Driver (2017), che scrive e dirige con la solita intelligenza narrativa e una rinnovata sensibilità estetica, Wright sembra voler superare un altro limite, che è quello del genere, o della parodia dei generi, assegnando al protagonista un ruolo atipico, promuovendolo cioè a metteur en scène della sua stessa storia.

Qualcuno potrà contravvenire: il protagonista è sempre, nel suo doppio statuto di personaggio narrato e proiezione del narratore, un po’ governato e governante dagli e degli eventi, ma qui la questione si fa meno ambigua e maggiormente discriminante perché il protagonista viene investito del potere di soverchiare lo spazio e il tempo diegetici, può operare cioè fuori dalle convenzioni narrative pur restandovi all’interno, come in un gioco interattivo. A Baby/Ansel Elgort, giovane autista prestato alla criminalità, in pratica succede quello che capita al Neo di Matrix quando viene risvegliato: assume una coscienza speciale. Solo che lì (all’occhio dello spettatore) il prescelto barattava un mondo diegetico per un altro parimenti diegetico in cui esercitava un controllo limitato, mentre qui egli sembra poter mantenere il piede sia sull’acceleratore di automobili in celluloide, grandi e piccoli modellini manovrabili, sia sulla pedana della stessa sala su cui lo spettatore batte a ritmo di musica extradiegetica. Non è un caso se i pezzi che accompagnano il film non siano solo quelli sentiti anche dal protagonista bensì quelli selezionati proprio da lui, regolanti il ritmo dell’azione e il mood delle scene. L’acufene di cui soffre, perciò, altro non è che un artificio straniante capace di sradicare parzialmente Baby dall’universo raccontato.

Si tratta certamente di una distanza allegorica – dopotutto ha subito un trauma che lo ha reso impermeabile al mondo in cui vive – ma anche e soprattutto una distanza narrativa che gli permette di emanciparsi dall’impianto citazionistico, dalle convenzioni di genere, dagli accadimenti prestabiliti e da un puro coinvolgimento emotivo e spettacolare. All’interno del film ricorda un autistico, qui “fuori” è senza dubbio un eroe. L’effetto proposto è lo stesso ottenuto dal musical, in cui la soggettività del singolo finisce per avere il sopravvento sulla fisica e sulle dinamiche stabilite dal film – il piano sequenza iniziale, con Baby che cammina e canticchia manifestando la capacità di muoversi e integrarsi nello spazio come fosse su un set cinematografico, è un suggerimento preliminare piuttosto chiaro del ruolo che egli assumerà all’interno della vicenda.

D’altra parte è lo stesso Wright a dichiarare: “Baby Driver è un musical con gli inseguimenti in macchina”, un La La Land (Damien Chazelle, 2016) d’azione, una versione sdrammatizzata di Drive (Nicolas Winding Refn, 2011) in cui la fuga non è una necessità ma una scelta e in cui la violenza resta asintomatica lasciando spazio alla goliardia. Baby appare sullo schermo, ma è anche seduto accanto a noi pronto a regolare la fruizione come il passeggero che in auto cambia continuamente stazione radio alla ricerca del pezzo più appropriato. Lo capiamo quando il ragazzo fa zapping in tv e i frammenti mostrati sono stralci di film riconoscibili, proprio come quelli che sta vivendo, piuttosto che realtà alternative ed equivalenti; ma lo vediamo anche quando, durante le puntuali e complicate spiegazioni dei piani di Doc/Kevin Spacey, il giovane presta attenzione e contemporaneamente traffica con piccole macchinine giocattolo. Ciò che per ogni personaggio è la “dura” vita – come ammonisce il tarantiniano Bats/Jamie Foxx – per Baby è una simulazione da vivere senza troppe ansie, in cui si è sempre in tempo per una pausa, per un cambio di scenario, o per scorrere veloce le “parti noiose” con un dito prima di far partire la track definitiva…

Il pericolo – se così vogliamo chiamarlo – al quale va in contro Wright mettendo in pratica una narrativa così surreale e sofisticata, è quello di rendere poco credibili e/o davvero coinvolgenti le vicende e i restanti personaggi, che finiscono per apparire come macchie su uno schermo in cui è stato appiccicato un ingombrante e tridimensionale adesivo. Per questa ragione a molti spettatori il film potrebbe sembrare piccolo divertissement, un prodottino multigenere da godere senza troppe aspettative. Invece Baby Driver è qualcosa di più, un esperimento riuscito sulla rimodulazione dei generi e dei ruoli, con cui dimostrare che al cinema si può anche continuare a raccontare le solite storie ma da punti di vista sempre diversi, sempre più dislocati, sia sfruttando le distanze fisiche o psicologiche, sia azzardandone di elegantemente metadiscorsive, o tenendole – come in questo caso – acrobaticamente in equilibrio.



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