Quando ci si accosta a un film come Megan Leavey (Gabriela Cowperthwaite, 2017), il biopic sulle gesta del caporale dei marine Megan e del cane antimine Rex, le aspettative non sono mai troppo alte. A prescindere dall’ambientazione territoriale e temporale, infatti, i prodotti in cui viene mostrato e indagato il rapporto tra esseri umani e animali tradiscono sempre una certa leggerezza, una semplificazione di intenti, come se fosse ingiusto descriverli trattandoli con troppa serietà. Perciò, che facciano piangere o ridere, i film in cui gli animali sono protagonisti o coprotagonisti appaiono spesso resoconti di serie B dotati di un’epica tutta loro, ridimensionata e defilata. Il problema è che, così impostati, questi film finiscono per sembrare puerili e smaccatamente buonisti, anche se a pesare più di ogni altra cosa resta l’eccessivo antropomorfismo, proposto affinché una responsività umana sia rintracciabile nel comportamento e nella fisicità dell’animale e un’identificazione dello spettatore sia così resa possibile.

Megan Leavey, diversamente e quasi incredibilmente, non è un film retorico e non lo è né nel suo impianto di genere – non è un classico film “di guerra” nonostante buona parte sia ambientata nell’Iraq della seconda guerra del Golfo – né nella definizione del rapporto – di lavoro e affettivo – tra Megan e Rex. E’ piuttosto un dramma che non intende strappare lacrime e una ricostruzione biografica che non vuole apparire eccessivamente romanzata. Si tratta di un film asciutto, minimale, rapidissimo nel tracciare le evoluzioni storiche e le dinamiche dei rapporti, talmente rapido da apparire abbozzato e superficiale. Tuttavia, giunti alla fine, non si può fare a meno di costatare che di superficiale non ha proprio nulla e che, nel suo essere più vicino al docudrama che al genere drammatico, finisce per risultare un prodotto realistico e piacevolmente onesto.

Non a caso, mentre la scalata gerarchica e umana mostra il passaggio di Megan da adolescente problematica a donna indipendente e responsabile, il cane – sembrerà banale – resta un cane. Un eroe di guerra, certo, ma un essere vivente senza ambizioni, sogni o virtù. Un pastore tedesco addestrato che stabilisce un esclusivo patto di fiducia con il suo padrone e che a lui si abbandona mettendo in pausa l’istintiva aggressività. Rex, perciò, appare all’interno del film nella giusta dimensione: di sguincio, in corsa, al lavoro, al riposo. Nessuno sguardo languido, nessuna impresa alla Rin Tin Tin con squilli di tromba e camera-car, nessuna focalizzazione che superi la manciata di secondi necessari per dire tutto quel che c’è da dire, e cioè che l’unione fa la forza, anche quando questa è sancita tra un essere umano e un animale.

L’operato di Megan e Rex è tanto noto quanto formidabile, si parla di più di cento missioni andate a buon fine con un numero incalcolabile di vite salvate e tragedie scampate, perché aggiungere altro o puntare su altro? La Cowperthwaite è molto abile nel gestire il delicato equilibrio tra azioni e reazioni, tra accadimenti e ricadute emotive, tra empatia e fermezza, intelligenza e istinto, realizzando un film di cristallina coerenza e misura, che non inciampa nemmeno quando, deposte le armi, deve mostrare la lotta di Megan per l’adozione di Rex, ormai giunto a fine “carriera”.
Per tutte queste ragioni il film è da vedere e gli eroi mostrati da conoscere, quantomeno per riconoscergli il dovuto valore.



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