Sin dalla prima scena del primo trailer rilasciato da Netflix Mindhunter urlava al mondo e a pieni polmoni: sono una creatura di David Fincher! Il che è davvero affascinante: cosa rende un’inquadratura strettissima su una fotografia in bianco e nero di un cadavere di donna che esce da un fax un’immagine così chiaramente riconducibile a un singolo regista?
La risposta non è così immediata e anzi, tra critici cinematografici, cinefili e colleghi invidiosi, sono anni che si tenta di dissezionare lo stile unico di uno dei più grandi registi televisivi e cinematografici statunitensi contemporanei. Mindhunter poteva essere poco più di un passatempo remunerativo per un nome che può permettersi di fare più o meno quel che vuole – a patto di girare un thriller più commerciale ogni tanto – al cinema e in televisione. Invece ben presto si trasforma nella più autentica creatura fincheriana, un vero e proprio compendio di cosa ha reso così celebre un regista così celebrale e maniacale da non scomparire nel paragone con Stanley Kubrick. Non da ultimo, il tocco di Fincher ha reso l’ennesima nuova serie TV targata Netflix una delle più strepitose novità dell’anno televisivo 2017.
La versione breve è che la dovete proprio vedere. La versione lunga è: quanto pesa sul suo notevole livello qualitativo il fatto di essere figlia di Fincher? Tanto. Tantissimo.
Si potrebbe obiettare che qui Fincher è quasi un mestierante, asservito ai bisogni di Joe Penhall. È lui infatti ad aver ideato e scritto personaggi e situazioni di Mindhunter, a partire dal resoconto di genere true crime intitolato Mindhunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit, scritto da E. Douglas e Mark Olshaker.
Se anche noi sappiamo riconoscere il profilo di un autentico serial killer al primo appuntamento lo dobbiamo proprio al Crime Classification Manual. Quest’opera monumentale deriva da anni di studi e interviste condotte dall’agente John Edward Douglas, che si è inventato la profilazione degli assassini seriali e il concetto stesso di serial killer.
In Mindhunter il suo giovane alterego Holden Ford (Jonathan Groff) finisce presto per fare coppia investigativa con l’agente più disincantato e navigato Bill Tench (Holt McCallany), mentre si muovono nella terra inesplorata della psiche criminale. Aggirando divieti e perbenismi, i due finiranno per interrogare una serie di notori criminali e ad applicare sul campo quelli che oggi persino per lo spettatore più ingenuo sono concetti assodati, ma a fine anni ’70 erano avanguardia delle scienze comportamentali.
L’influenza dell’ambiente familiare e dei traumi d’infanzia, il rapporto con la madre e l’abbandono del padre, la prevalenza del profilo maschile, l’ossessione per l’umiliazione del corpo femminile, il rapporto problematico con la sessualità, episodi di sadismo e violenza in giovane età contro gli animali: Holden e Bill cominciano appena ad afferrare i contorni di quello che è stato un cambiamento investigativo epocale.
Torniamo però a David Fincher, perché a questo punto dovrebbero esservi scattati parecchi campanelli d’allarme. Una coppia d’investigatori/poliziotti decisamente bromantica con una certa differenza d’età e qualcosa d’irrisolvibile e potenzialmente fatale tra le mani: Se7en e Zodiac. Cold case, thriller e influssi polizieschi costituiscono inoltre gran parte della carriera del regista, in maniera diretta o indiretta, con film dal profilo autoriale o più apertamente commerciali (ma non per questo meno raffinati).
Mindhunter è inoltre il nuovo passaggio evolutivo di un recente sviluppo della sensibilità fincheriana. Siamo passati dall’inutile personaggio femminile di Se7en e dalla comparsata lampo di Rooney Mara in un film maschile come The Social Network a film che mettono al centro le donne protagoniste dell’ossessione del pubblico per la violenza perpetrata nei loro confronti. Non che Fincher sia diventato un femminista (non è certo Park Chan-wook), ma qualcosa è cambiato.
Lisbeth Salander e Amy sono vittime della violenza maschile attorno a loro, in un mondo che continua a sfornare prodotti che ritraggono come affascinanti e altamente intelligenti uomini che fanno della violenza e dell’odio contro le donne la loro missione di vita. La testa di entrambe però è ben salda sulle spalle e non chiusa in una scatola di cartone a fine film ad uso e consumo degli uomini protagonisti della scena. Amy e Lisbeth sanno di far rimpiangere amaramente al carnefice le sue sevizie, pur dovendo fare i conti con un mondo che ne ostacola la vendetta.
L’FBI degli anni del 1977 non accoglie di certo a braccia aperte le signore, eppure due dei comprimari più incisivi e affascinanti della serie TV (forse più dei killer stessi) sono Anna Torv e Hannah Gross, che non a caso sono lì a mettere in crisi l’assunto di Holden di essere il bravo ragazzo della situazione.
Una forgiata dalla scienza, l’altra dalla contro cultura, sono due donne capaci di non cedere di un millimetro a un mondo che cerca disperatamente di ingabbiarle in qualche stereotipo femminile, nei violenti e reazionari anni ’70.
Le due protagoniste, le interviste ai criminali e anche la chiusa al cardiopalma sono però figlie della mente di Joe Penhall, giusto? David Fincher ha impostato il registro stilistico della serie, girando solo 4 dei 10 episodi finali.
Questo però è il tipico modus operandi di Fincher. Pensate a The Social Network: è forse il pinnacolo della scrittura di uno sceneggiatore ingombrante come Aaron Sorkin, ma è anche e soprattutto il film più noto della storia recente di David Fincher.
Il regista statunitense, forse più di ogni altro in quest’epoca, ha fatto delle immagini e della regia i lessemi della sua lingua. Le sue parole sono i movimenti di macchina, i suoi pensieri viaggiano attraverso i close up e i piani lunghi, tutti distillati da una palette cromatica dai riflessi d’acciaio. Cosa ci sta dicendo David Fincher, con il suo stile così rigido e maniacale da aver generato fiumi di analisi ed essay?
Non usa quasi mai la camera a spalla, le sue riprese sono millimetriche e a lungo coreografate. Il regista è celebre per aver chiesto agli attori di rifare talvolta anche 50 o 60 volte un singolo take. Megalomania a parte, serve un notevole allenamento per gli attori e un ottimo cameraman per ottenere quello stile che ti fa immediatamente pensare “questa cosa qui l’ha diretta Fincher”.
La camera vive in perfetta mimesi con i protagonisti, nei passaggi importanti ne replica gli stessi, infinitesimali movimenti. Se Daniel Craig o Brad Pitt fanno un minuscolo cenno di capo, la camera fa un lievissimo movimento nella stessa direzione. Il risultato è una visione assolutamente immersiva nel punto di vista dei protagonisti, in cui l’improvvisazione è bandita e anzi, ogni movimento e spostamento dei personaggi nell’inquadratura è ampiamente voluto e prestabilito, studiato per dirci o suggerirci qualcosa.
Quando un personaggio si avvicina, quando un’inquadratura rimane concentrata su un volto, quando un oggetto viene osservato da molto vicino fino ad acquistare un valore totemico: quello è David Fincher che vi parla, a livello conscio e subconscio.
Mindhunter è semplicemente un nuovo traguardo di maturità di un regista a cui basta la singola inquadratura di un fax per aprire una conversazione e quattro episodi di una stagione di una serie televisiva da lui non scritta per assoggettarla alla sua influenza, che strabocca persino nello stile della sigla d’apertura.
Continuiamo pure a dissezionarlo e intervistarlo: ci vorrà ancora molto per scrivere il profilo registico completo di un genio del nostro tempo. Intanto però ricordiamoci di ringraziare una certa Charlie Theron, che ha cacciato la grana come produttrice per regalarci la sua ennesima perla.
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