Dalla chiusura di Lost, ogni nuovo progetto su cui J.J Abrams ha poggiato le mani è stato annunciato come rivoluzionario. Va ammesso che che il buon J.J. ha saputo davvero sfornare – o quanto meno produrre – delle idee valide che sono riuscite a ritagliarsi un posto di prestigio nell’affollato panorama televisivo statunitense – Fringe e Person of Interest su tutte – ma nulla che potesse rivaleggiare Lost per quanto riguarda l’impatto sul medium. A sua discolpa va aggiunto che la rincorsa la nuovo Lost è una malattia che ha colpito nel recente passato parecchie emittenti – ricordate FlashForward? Terranova? Falling Skies? – per cui ogni nuovo pilot fantascientifico deve rispondere all’identikit ideale di ogni reparto di marketing. Sommando questi due trend, ricorrenti ad ogni nuova stagione di debutti sui palinsesti USA, si ottiene Revolution, le cui ambizioni sono chiare a partire dal titolo. Fughiamo però subito ogni dubbio, nei 43′ andati in onda questa notte non c’è traccia di rivoluzione alcuna, a meno che non si voglia considerare tale il fatto che questa serie possa potenzialmente rappresentare la pietra tombale su ogni tentativo di emulare le fortune televisive ottenute con l’incidente del volo Oceanic 815.

L’esordio non è del tutto negativo, intendiamoci, ed è probabilmente riuscito a solleticare quella schiera di spettatori irrimediabilmente portata a farsi sedurre dal fascino del mistero, perché da questo punto di vista Revolution svolge davvero bene il suo lavoro. Le vicende si svolgono in un futuro distopico che si colloca 15 anni dopo il grande black out che ha sottratto l’energia elettrica al pianeta Terra, rendendo di colpo inutilizzabile ogni dispositivo elettronico, dai frigoriferi agli aerei. Nella zona intorno a Chicago – ma si può ipotizzare che ciò valga anche per gli interi Stati Uniti – l’umanità è tornata a dedicarsi ad agricoltura e pastorizia, riunendosi in piccoli villaggi per proteggersi dai numerosi criminali che infestano le campagne, mentre il potere è gestito da un’organizzazione violenta chiamata Milizia. La routine di uno di questi villaggi viene sconvolta quando la Milizia si presenta per arrestare un uomo che pare essere a conoscenza di cosa sia successo durante il black out.

Il plot che già di per se non spicca per originalità viene affossato in questo primo episodio da un eccessivo ricorso alla fortunosa casualità in fase di sceneggiatura, infarcita di eventi eccessivamente forzati su cui si fa fatica a chiudere un occhio vista la frequenza con cui si susseguono. Il punto più debole di Revolution tuttavia è la messa in scena che appare povera ed spudoratamente derivativa. Nonostante un budget più che sostanzioso – così si vocifera – le location in cui si svolgono gli eventi del pilot appaiono tutti tristemente posticce e spoglie, mentre l’aspetto visivo strizza l’occhio a diversi altri esponenti di letteratura televisiva post-apocalittica da Jericho a The Walking Dead. Persino il look dei personaggi è debitore rispetto ad altro, se poi quest’altro nello specifico è The Hunger Games da cui, come se non fosse già abbastanza, pare uscita anche la giovane protagonista, naturalmente munita di arco ormai eletta arma ufficiale dell’anno 2012, ci si può rendere conto di come Revolution puzzi di operazione costruita completamente a tavolino per emulare un fenomeno, quello lostiano, che ormai pare assodato sia impossibile da replicare, quantomeno non coscientemente.

Lost è irrotto nella vita di milioni di spettatori cambiandone le abitudine televisive e sociali grazie a una serie di fattori che hanno a che fare solo tangenzialmente con il prodotto televisivo. Insieme all’altissima qualità di scrittura che caratterizzava ogni episodio, elementi altri, qualificabili come esterni, hanno contribuito alla nascita del fenomeno, in primis l’improvvisa virata verso il social di internet, il miglioramento nella qualità delle connessioni che ha consentito a chiunque nel globo di visionare la serie in semi contemporanea con gli USA, e infine il proliferare di community di subber disposte a svolgere del lavoro notturno non pagato per facilitare la visione ai non anglofoni, solo per citare i più lampanti. Cercare di replicare in laboratorio tutti quei fattori che hanno dato vita a questa meravigliosa serie di coincidenze è impossibile e se ancora non fosse chiaro ci penserà Revolution a decretare la morte di ogni esperimento di clonazione di Lost, perché a quel punto sarà chiaro a tutti che se il miracolo della riproduzione non è riuscito nemmeno al suo creatore originale nel suo tentativo più esplicito, ogni altro sforzo è inutile. Revolution ha ancora margini di manovra per resuscitare ed evitare un triste destino da fenomeno da baraccone televisivo – e lo speriamo, francamente, perché Esposito merita ben altra sorte – ma per farlo serve una scrittura molto più coraggiosa e soprattutto la ferma volontà di distaccarsi da altri modelli di successo preconfezionato e trovare subito alla svelta un’identità propria. L’alternativa è il fallimento rovinoso, ma crollando nella polvere Revolution porterà con se la malevola idea su cui si basa, e col senno di poi potrebbe proprio questo essere il suo miglior pregio. 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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2 Comments

  1. Sì, davvero un pessimo pilot per l’ennesima serie che dubito supererà la prima stagione. Tra l’altro è vero che Lost alla fine ha esagerato nel senso opposto, lasciando sospese molte questioni (a me, ovviamente, non è che interessassero molto le risposte, perchè il fascino della serie stava altrove) ma qui si sono bruciati subito alcuni colpi di scena. Il twist che chiude il pilot io me lo sarei aspettato nel finale di stagione, non dopo 45 minuti. Se a questo aggiungiamo una scrittura sciatta e personaggi bidimensionali…no, passo.

  2. Ma perchè i serial americani sono fissati con il personaggio fesso che combina cazzate e ci rimette sempre qualcun’altro? Fosse Gaius Baltar…

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