Il mio episodio preferito di Lost è un episodio minore, anzi, forse uno dei più dileggiati. Si intitola Exposé e ha per protagonisti Nikki & Paulo, la coppia di fratelli introdotta tardivamente nella terza stagione, naufraghi fino a quel momento di contorno a cui era stata ritagliata una storyline da semi-protagonisti. La terza stagione di Lost aveva un sacco di problemi, tra cui il famigerato sciopero degli sceneggiatori, ma a parer mio Nikki & Paulo non erano tra questi, o almeno non erano certo il principale. Eppure, online, erano diventati l’incarnazione di tutti ciò che non andava con la terza stagione di Lost. Ebbene sì, il fandom rompicoglioni non è nato sui social.

Exposé si prende la briga di eliminare Nikki & Paulo, senza troppi fronzoli per altro, e lo fa con un episodio centrato interamente su di loro, altro motivo per cui è tra i più odiati. Nel farlo, però, condensa tutta la storyline che li avrebbe coinvolti in circa 42 minuti, rivelando come dettagli ritenuti all’apparenza stupidi o inutili in realtà facessero parte di un disegno più grande che sarebbe stato svelato nel tempo. Tuttavia, il pubblico non voleva Nikki & Paulo, nella sala di scrittura si decise di ascoltare il pubblico – eccolo infine il problema di Lost! Ma anche dell’Ascesa di Skywalker – e la coppia formata da Nikki & Paulo finì sottoterra senza tanti rimpianti.

Benché non sia ufficialmente accreditato come sceneggiatore dell’episodio, ma solo come ideatore della serie (e forse show runner a quel punto), ho sempre considerato Exposé la dimostrazione dell’abilità di Lindelof nello scrivere storie articolate e complesse, in cui i pezzi si incastrano alla perfezione solo all’ultimo secondo, a cui bisogna però prestare fiducia cieca senza avanzare pretese. Nutro, per altro, la convinzione che se non si fosse deciso di superare in arguzia i fan finendo in un cul de sac, anche Lost nella sua interezza avrebbe potuto fungere da dimostrazione concreta, ma così non è stato, ed è andata come è andata.

Oggi, a una manciata di giorni dalla messa in onda dell’episodio 9 di Watchmen, credo che la mia convinzione possa ormai avere valore universale. (Nel frattempo a confermare la mia tesi ci ha pensato The Leftovers, ma si trattava di una serie molto meno mainstream rispetto a Lost e purtroppo in pochi le hanno prestato l’attenzione che meritava). Con Watchmen, Lindelof ha fatto il suo salto di qualità, raggiungendo uno status inavvicinabile in questo momento per qualunque show runner o sceneggiatore avendo raccolto di confrontarsi direttamente con Alan Moore uscendone integro. Il tutto mentre raccontava l’America di oggi mettendo in scena un supereroe col superpotere del lubrificante.

Il Watchmen di Lindelof è una prova d’autore, un lavoro letterario simile a quello compiuto dallo stesso Moore con la sua Lega degli Straordinari Gentlemen. Lindelof ha preso dei personaggi ormai entrati a far parte della cultura popolare (benché nerd e di nicchia), ma ritenuti intoccabili, e li ha fatti suoi, immaginando per loro loro un futuro che il loro creatore – ehm, anche qui ci sarebbe da parlarne – non ha voluto concepire, rinchiuso nel suo mondo magico in cui si rifiuta di far entrare qualunque fumetto prodotto negli ultimi 20 anni, purtroppo per lui. E lo dico volendogli un gran bene, a quel brontolone di Moore.

Senza ricalcare lo stile di Moore, Lindelof ha saputo studiarne la struttura narrativa, piegandola affinché calzasse alla perfezione a un altro medium, ricreando sul piccolo schermo un meccanismo narrativo il cui incastro dopo l’ultimo fotogramma si è rivelato meccanicamente preciso quanto quello dell’opera originale. Nel farlo, tuttavia, Watchmen è diventato anche l’argomento della propria stessa narrazione: il Watchmen televisivo parla dell’America, del razzismo, del suprematismo bianco, dell’eredità, del potere dei ricordi e delle maschere, ma anche e soprattutto di Watchmen.

Perché il Watchmen di Lindelof è Watchmen, non è una rielaborazione dell’opera di Moore come fu per Snyder, ma la continuazione dello stesso concetto, dello stesso discorso, applicato ai giorni nostri. Così come Moore parlava dell’epoca Thatcher attraverso un gruppo di uomini e donne in calzamaglia, Lindelof fa lo stesso col quadrienno trumpiano, due linee temporali accomunate dalla paura e da ciò che ciascuno è disposto a fare per renderla tollerabile.

La libertà più grande che si prende Lindelof è quella di introdurre una storia d’amore e la prova del su talento è che ne esce indenne, a differenza di James McTeigue con V per Vendetta. Anzi, nel caso di Lindelof la sottotrama romantica esplode all’improvviso, ma caratterizza l’episodio senza dubbio alcuno migliore della serie, l’ottavo, un’ora di altissima televisione, forse la migliore da quell’episodio di Twin Peaks, ma anche un singolo momento che strappa il cuore e costringe a fare i conti con le emozioni persino a chi ha ormai trasceso la forma umana com il Dr. Manhattan.

Il 2019 è stato un anno incredibile, forse a tratti impensabile o imponderabile per Watchmen. Il monolite di Alan Moore, per decenni ritenuto intoccabile, ha visto concretizzarsi la sua eredità in due opere, la serie Tv di Lindelof e la graphic novel Doomsday Clock di Geoff Johns giunta a compimento in questi giorni. Due interpretazioni profondamente diverse il cui più grande merito è quello di ricollegare finalmente Watchmen all’universo che gli appartiene, ovvero quello della narrazione, sottraendolo alla polverosa intoccabilità a cui l’aveva involontariamente condannato l’irascibile isolamento autoimposto del suo autore.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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