Mesi fa, poco dopo aver scoperto per caso The Leftovers, ho avuto modo di leggere una recensione in cui Damon Lindelof veniva accusato di essersi piegato ad un “vomitevole sentimentalismo da romanzo”, riducendo così la serie tv di cui è sceneggiatore, insieme a Tom Perrotta autore dell’omonimo libro, alla semplice “storia di una famiglia fallita”. Niente di più sbagliato, niente di più superficiale.

C’è senza dubbio narrazione, trama romanzesca, sentimento, problematiche familiari, mistero, morti e colpi di scena in The Leftovers. Ma chi si ferma a giudicare la serie a partire dai suoi aspetti formali, o peggio ancora dalla semplice trama, rischia inesorabilmente di fraintendere, o peggio non coglierne fino in fondo il valore. Valore che ad occhi più attenti potrebbe altrimenti apparire assoluto.

Nel corso della seconda stagione uno dei personaggi più importanti della serie, Nora Durst, sarà accusata, per motivi che non sto qui a svelare, di fungere da “specchio”. Accusa infondata nei suoi confronti, ma che potremmo muovere, invece, senza timore di essere nel torto nei confronti della serie stessa. È proprio The Leftovers ad essere uno specchio, ma solo per lo sguardo attento, filosofico, quello che (si) sa riflettere. E questo aspetto risulterà subito evidente.

Prima di entrare nel vivo della questione però voglio fare alcune premesse. Una è quella per cui stiamo parlando comunque di una serie incompiuta, a cui manca una terza ed ultima stagione (in produzione). Ciononostante, come abbiamo detto, non ci interessa troppo il racconto (che comunque continuerà a riservarci sorprese), quanto piuttosto i concetti che lo muovono, e questi sono già abbondantemente emersi.

Ulteriore precisazione da fare è quella per cui ci sarebbe davvero troppo di cui parlare: ogni singolo aspetto della vita dei vari personaggi dimostra cura del particolare, attenzione alla complessità dei soggetti umani, rifiuto della banalità posticcia dell’etichettamento. Un approccio che offre importantissimi spunti di ordine psicologico e sociologico. Ma su The Leftovers si potrebbe scrivere un libro, e io non ne ho né il tempo né le capacità. Quindi mi limito ad offrire semplicemente, nel mio piccolo, una delle tante chiavi di lettura possibili per comprendere una serie complessa, certo imperfetta, ma che tuttavia per me rasenta il capolavoro.

Iniziamo dal principio.

the_leftovers_tv_series-hd-1280x720

Succede qualcosa il 14 ottobre?

Punto di partenza di tutte le vicende, fulcro di tutta la serie, è quella che viene chiamata Sudden Departure, l’Improvvisa Dipartita: la mattina del 14 ottobre 2011 in un solo istante 140 milioni di persone, il 2% di tutta la popolazione mondiale, svanisce nel nulla. Il vero problema però non è tanto la Dipartita o il mistero che l’avvolge, quanto piuttosto il suo essere appunto Improvvisa.

Nessun annuncio, nessuna catastrofe, nessun clamore, nessun segno del fatto che sia avvenuta: il suo carattere evenemenziale, singolare, sta proprio nel fatto di essere estranea ad ogni concatenazione causale, dunque fondamentalmente indimostrabile, da un punto di vista puramente logico. In una parola, la sua caratteristica scioccante, destabilizzante, è la totale irrazionalità.

Una assoluta estraneità al comune modo di essere e di pensare dell’uomo che risulta evidente, del resto, anche se si va a guardare chi è dipartito. Si tratta infatti di uomini e donne di ogni tipo: padri e madri di famiglia, vecchi e ragazzini, malati di ogni genere, delinquenti e assassini, ma anche neonati e feti. Perché proprio loro? Qual è il comun denominatore in grado di tenere insieme tutta questa gente? Qual è la logica di una simile selezione? Non è l’età, non è lo stato sociale, e non sono il merito o il peccato. Sono stati anche elaborati questionari da sottoporre ai familiari dei dipartiti, con lo scopo di sondare le identità di questi ultimi per trovare un singolo, magari inimmaginabile, elemento comune a 140 milioni di persone, ma ogni tentativo è vano.

Ecco un primo motivo in cui rispecchiarci, sul quale riflettere: perché un simile sforzo? Perché l’uomo non può rinunciare al tentativo di dare un senso alle cose. L’uomo invidia a Dio, più di ogni altra cosa, l’onniscienza, la possibilità di vedere tutto, di controllare tutto, uomini e natura. E questo risulta evidente nei progressi della tecnologia, nell’ideale della trasparenza, negli ascolti dei reality show, nella saccenteria degli utenti dei social networks, nella possibilità – vissuta come diritto inalienabile – ad esprimere la propria opinione.

Ne abbiamo bisogno, per un semplice motivo: perché il vuoto ci fa paura. Perché quel vecchio zoppo che è l’Umanità ha sempre, inevitabilmente, bisogno di un bastone per non cadere. E questo bastone è il senso, il significato che diamo a tutte le cose col fine di controllarle, di controllarne l’eventuale potenza annichilente. Il nostro desiderio più profondo e umano è quello di controllare i lavori in corso come i pensionati milanesi: osserviamo le cose accadere, forti della nostra posizione sopraelevata, forti del nostro sapere cosa è appena accaduto, cosa sta accadendo e cosa accadrà, secondo una perfetta linea deduttiva, relativamente razionale, per cui anche l’errore, sicuramente biasimato, viene comunque riassorbito nella logica dell’essere e di ciò che deve essere.

L’evento del 14 ottobre però non riesce a rientrare in nessun tipo di logica, e l’uomo si ritrova senza bastone, sospeso sul vuoto. È del tutto evidente, fin dalla prima puntata, che qualsiasi spiegazione razionale risulti essere inattingibile. Dove cercare allora rifugio? Detto altrimenti, qual è l’elemento che nel corso della storia umana è sempre venuto in soccorso dell’uomo alle prese con quell’abisso che si spalanca al di là della sua razionalità? La fede.

È teologica, anti-filosofica, l’unica “spiegazione” che si può dare del 14 ottobre. Ciò che è accaduto non sarebbe nient’altro che l’Apocalisse, Dio che chiama a sé i suoi eletti. A tal proposito però, sarebbe scorretto qui riferirci sic et simpliciter alla tradizione cattolica. Questa infatti prevede il cosiddetto Giudizio Universale, ma ogni giudizio per esser tale deve fondarsi su un criterio, su una logica, e qui non ce n’è neanche l’ombra. Per questo il reverendo Matt Jamison rifiuta l’ipotesi che si tratti dell’Apocalisse e si lancia in una solitaria campagna atta a dimostrare che Dio non avrebbe potuto scegliere i tantissimi assassini, debosciati, traditori, criminali, malvagi che sono presenti tra le file dei Dipartiti.

Un chiarimento però ci viene da Sant’Agostino. Nel suo De Civitate Dei, il vescovo d’Ippona parla dell’umanità come di una Civitas peregrina in cui appare del tutto invisibile, ai nostri occhi mortali, la separazione, operata da Dio dall’eternità, tra il grano e la zizzania, tra la Città di Dio (gli Eletti) e quella Terrena (i Dannati). Se questo Dio fosse davvero “remuneratore”, come vorrebbe Matt Jamison, ovvero se la sua scelta si dovesse fondare necessariamente su criteri di Giustizia, sui meriti e i demeriti dei singoli individui, a risentirne sarebbe la Sua assoluta Onnipotenza, limitata peraltro dal fatto di essere sottomessa ad una logica – quella della Giustizia, appunto – che è totalmente umana. Di fronte all’Onnipotenza divina non c’è logica che tenga, non c’è appiglio, le opere di bene, le virtù, i meriti, non offrono garanzia alcuna.

Se però, da un lato, la fede riceve quasi un sigillo di autenticità nel momento in cui ci si convince che l’evento irrazionale del 14 ottobre sia stata l’Apocalisse, dall’altro lato, la stessa fede, per il fatto stesso di essere divenuta verità tout court, si svuota di senso. Matt Jamison rappresenta uno degli ultimi baluardi di una religiosità che scompare del tutto nel mondo di The Leftovers (e non è un caso che una comunità ecclesiale solida permanga solo a Jarden, il paese in cui nessuno è stato chiamato, in cui la Fine del mondo non ci è mai stata).

La fede, infatti, riceve linfa dall’ignoto, dalla sospensione della razionalità con cui facciamo quotidianamente i conti, dall’esigenza di speranza e di amore connaturata alla fragilità umana, dall’attesa. Ma in un mondo post-apocalittico, nel momento peraltro in cui la fede ha assolto il suo compito più alto, quello di spiegare l’inspiegabile, non c’è più spazio alcuno per la speranza e per l’attesa. Fin dalla prima puntata, lo spettatore è quasi disturbato dall’arrendevolezza generale.

Di fronte ad un simile “mistero” siamo abituati a vedere trame avventurose, geni impegnati a risolvere l’enigma. E la soluzione, alla fine, ha sempre una matrice razionale. In The Leftovers non avviene niente di tutto questo: ci sono solo vite normalissime che continuano e che cercano di andare avanti tra mille difficoltà. L’inspiegabilità del 14 ottobre ha reso quell’evento non di certo ininfluente ma quasi inesistente.

Se in serie come The Walking Dead la Fine del mondo, nel ridurre la vita alla sopravvivenza, fa decadere l’uomo civilizzato nel suo stato di natura, quello hobbesiano del bellum omnium contra omnes, la particolarità di The Leftovers è che qui la Fine del mondo non stravolge il modo di essere dell’uomo, non lo rende a-morale, tutto rimane come era prima (con “semplici” perdite familiari da scontare), come se niente fosse accaduto. Il punto fondamentale però è che anche qui la vita viene ridotta a semplice sopravvivenza, nel senso diverso, meno “banale”, per cui non c’è più prospettiva, obiettivo, fine ultimo, sicurezza, non c’è più la vita oltre la morte, non c’è più speranza, non c’è più un’attesa in grado di dettarci la direzione, e siamo allo sbando: è come conservare un biglietto della lotteria, pur sapendo che l’estrazione è già stata fatta.

leftovers-1

Cosa ne è di chi rimane quaggiù?

Per continuare su una falsa riga teologica, nel suo De Divina Praedestinatione Giovanni Scoto o Eriugena, afferma che per “salvare” la Bontà divina pur restando all’interno della già vista concezione agostiniana dell’Apocalisse, bisogna pensare che Dio è onnipotente e misericordioso nei confronti di coloro che sceglie come suoi “concittadini”, ed è semplicemente giusto nei confronti di tutti gli altri, tutti coloro che restano a scontare, quindi, il loro peccato originale. Dio non li condanna alla dannazione eterna, ai lavori forzati in posti decisamente caldi, ma semplicemente li lascia.

L’Inferno ha dunque per Eriugena una valenza metaforica: esso consisterebbe – è qui che questo inciso manualistico assume senso nel nostro contesto – nell’eterna presa di coscienza del proprio errore.

In The Leftovers c’è una setta particolarmente oppressiva nel suo proselitismo, quella dei Guilty Remnants, i Colpevoli Sopravvissuti, la cui ideologia non è mai spiegata ma consegnata ai gesti, al simbolismo che contraddistingue la quotidianità dei suoi adepti.

Partirei dalle sigarette, elemento centrale della loro esistenza. Non sarebbe corretto dire che questi Guilty Remnants “fumano spasmodicamente”, in quanto non sono frenetici nel loro fumare come lo sarebbe invece il peggior schiavo della nicotina. Il loro fumare è tranquillo, naturale, vacuo, monotono. Le sigarette rappresentano per i Guilty Remnants un semplice orologio, il ticchettio che scandisce la loro esistenza, una temporalità che non ha più niente da aspettare e che sostituisce l’avanzamento con la ripetizione monotona. Quando si chiede loro perché fumano, essi non rispondono riferendosi all’aiuto che fornisce la nicotina alla sopportazione del dolore, anzi sono quasi spaesati di fronte ad una simile domanda. Come se qualcuno ci chiedesse cos’è il tempo.

Ancora una volta Agostino può aiutarci a capire: nelle Confessiones troviamo la celebre questione della temporalità come dimensione interiore, distensione dell’animo umano. Un quasi-nulla che in noi assume una realtà viva, consolidata, ineliminabile. Proviamo a sostituire questa realtà interiore col semplice fumo di sigaretta che riempie i nostri polmoni e ne riesce l’istante successivo: non c’è simbolo più efficace di esso per indicare come anche l’interiorità sia diventata qualcosa di evanescente, inconsistente, inesistente, il fumo è qualcosa di così poco essenziale che nel momento in cui ci entra dentro già è naturalmente portato ad uscire.

Inessenzialità: The Leftovers ruota attorno a questa parola. Con lo sguardo fisso a questo concetto, pensiamo cosa può significare l’abito bianco dei Guilty Remnants. La forma settaria e la stessa trama potrebbero indurci a collegare banalmente il bianco alla purezza, alla loro sedicente (ma neanche troppo) superiorità “spirituale”. Niente di più sbagliato. Si vestono di bianco perché bianco è il colore della tabula rasa, concetto caro a tutta una serie di filosofi, da Aristotele in poi, stante ad indicare l’anteriorità rispetto ad ogni essere.

Se però la tabula rasa è pronta ad essere scritta, i Guilty Remnants una tale bianchezza in-esistente la indossano orgogliosi. Non c’è differenza tra i capi d’abbigliamento, non ci sono tracce di colore, neanche del tetro nero, nessuna distinzione, nessuna differenza, omologazione nel riscontro unanime di un vuoto interiore. E quale altra espressione migliore di un tale vuoto inessenziale che il silenzio… I Colpevoli Sopravvissuti non parlano, non sprecano il loro fiato. È vero che le parole svaniscono, sono transeunti, ma il suono emesso riempie sempre uno spazio-tempo (al contrario della frase semplicemente scritta su di un foglietto subito accartocciato), e loro non possono più accettare un tale riempimento, divenuto ormai impossibile, o meglio del tutto inessenziale.

Ma perché tutto questo? Cosa vogliono dimostrare? Cosa sono, in sostanza, questi Guilty Remnants? È qui che entra in ballo quello che forse è l’aspetto psicologicamente ed esistenzialisticamente più interessante relativamente a questa setta post-apocalittica. Essi dicono di essere un Promemoria vivente. Il loro compito, quello per cui assillano le persone con atti di stalking quasi terroristico, è quello di non permettere la dimenticanza. Essi raffigurano l’impossibilità di rimuovere il trauma generatosi quel 14 ottobre.

Facciamo un piccolo passo indietro. L’evento, per definizione, è sempre qualcosa che inaugura una nuova storia. È un nuovo inizio, l’inizio di un nuovo modo di pensare e di vivere. Il problema è che il 14 ottobre 2011 il mondo non viene stravolto, rigirato come un calzino, accade qualcosa di assolutamente eclatante, scompaiono 140 milioni di persone, ma in fin dei conti – come abbiamo già detto – tutto è come prima. Se ci mettiamo in una prospettiva teologica, gli unici ad essere trasformati concretamente, “esistenzialmente”, dall’evento sono proprio i Dipartiti. Gli altri, i Leftovers, non sono esistenzialmente coinvolti in una simile trasformazione, ne sono propriamente esclusi. Ad essi quindi non resta che piangere l’occasione mancata.

Si tratta dunque di elaborare il lutto, e se ogni sforzo in tal senso risulta vano, se la perdita, la mancanza, non fa altro che tornare, che ripetersi all’infinito, quella durata dilatata che costituisce la vita si riduce alla presentificazione del solo passato (traumatico). È il classico passato che non passa, e abbiamo già visto nel simbolismo delle sigarette e del silenzio quanto sia evidente questo non-scorrere del tempo. Nessuna storia, nessuna Vita con la V maiuscola, può ri-partire da un simile trauma. E questo – ribadiamolo – proprio in virtù del fatto che non è stato trovato alcun significato ad esso, il Senso non è pervenuto. Se il presente è monotonia perché il futuro è propriamente inutile, senza prospettiva, ciò che resta è il solo passato, impossibile da dimenticare, ciò che resta è la colpevolezza di chi ha mancato l’appuntamento con l’evento, ciò che resta è, appunto, l’eterna presa di coscienza dell’essere fondamentalmente spacciati, consegnati al lutto, ad un’eterna inessenzialità.

leftovers-3-hp

Tentare di vivere

I Guilty Remnants costituiscono il piano della consapevolezza nauseata, della mera sopravvivenza post-apocalittica, della fine di una storia di Senso. Questa parola, “consapevolezza”, ha solitamente un valore positivo nell’immaginario collettivo. Ma allora perché lo spettatore odia questi individui vestiti di bianco (alzi la mano chi di fronte al faccione fumante di qualche Colpevole Sopravvissuto non ha avvertito il desiderio ardente di tirargli un cazzotto)?

La risposta è in un affatto banale discorso di immedesimazione negli altri Leftovers, quelli che parlano, quelli che cercano di andare avanti, quelli che quel lutto lo stanno psicologicamente elaborando, aggredendo il biancume della setta dei fumatori, o magari ricercando l’abbraccio curativo di qualche santone, o ancora, cercando di padroneggiare l’ignoto dell’evento con l’ausilio di vari mistici, o magari semplicemente ricercando quelle immortali relazioni di sentimento nella classicissima “comun catena” leopardiana.

I protagonisti, tutti, ognuno con le sue caratteristiche, ognuno con le proprie esistenze, peraltro tutte meritevoli di approfondimento (ma non è questo il luogo), dal reverendo Matt alle prese con la giustificazione di una fede al tramonto e con una moglie che il 14 ottobre è andata via pur restando, a sua sorella Nora, donna cazzuta ma con tre Dipartiti in famiglia; dal poliziotto e padre di famiglia Kevin Garvey alle prese coi fantasmi del senso di colpa, ai figli estremamente complicati Tom e Jill che hanno vissuto il 14 ottobre durante la loro adolescenza, fino alla ex-moglie Laurie che dopo aver lasciato la setta silenziosa rappresenta perfettamente l’attualissima (e ridicola) tendenza a “psicologizzare” anche l’Incomprensibile, l’insensato; ma possiamo annoverare anche Patti Levin e Meg Abbott, le due “generali” dei Guilty Remnants con una spiccata tendenza all’azione belligerante, che si pongono un obiettivo individuando un nemico da abbattere con tutte le proprie forze, e non è un caso che, a differenza di tutti gli altri Colpevoli Sopravvissuti, abbiano una tendenza alla parola espressa che quasi stona nel loro contesto: ecco, tutti questi personaggi, e molti altri, rappresentano con le loro vicende impacchettate in toni romanzeschi e televisivi, l’umanità post-storica.

Un’umanità che cerca di fuggire la consapevolezza di ciò che è, che cerca invano di dimenticare, di ri-cominciare col modus vivendi precedente alla Sudden Departure. Tutto questo trova peraltro conferma nella fuga dei nostri, all’inizio della seconda stagione, verso Miracle, il parco in cui il 14 ottobre non c’è mai stato, in cui il tempo vitale e storico sembra ancora scorrere, in cui sembra ancora possibile dare un senso alle proprie vite, dimenticare il passato, annientare il senso di colpa, dare alla luce figli inaspettati, tornare a parlare.

Il punto però è che anche qui ogni rassicurante tentativo di “dare senso” risulta essere sempre parziale, inefficace, inconsistente, provvisorio, sempre alle prese con una mancanza di fondo, col lutto, con l’Insensato. La fine della seconda stagione, coi sorrisi ritrovati dopo l’invasione dei Colpevoli Sopravvissuti, indica tutta la potenza di quella che non è altro che un’illusione.

In conclusione, è qui che entriamo in gioco noi, è qui che possiamo specchiarci: la società attuale pronta a prender parola su tutto, pronta a rivendicare tutto, che si ritiene virtuosa, superiore, razionale, portatrice di verità e di giustizia, che parla discute litiga fa sesso mangia bene pensa agli animali si droga piange ed esulta, questa umanità del benessere, questa umanità del cemento, senza più spazi vuoti, non sta forse semplicemente affannandosi per far finta di niente?

Non sta forse solo cercando di scacciare quotidianamente la consapevolezza del Nulla in cui siamo immersi? Non sta forse solo cercando di distrarsi, esprimendo pareri su questioni ritenute “importanti”, per far fronte all’assenza di ciò che è davvero importante? Il messaggio più profondo e celato di The Leftovers è forse quello per cui la nostra è un’umanità che si sta illudendo di poter sostituire un senso della vita dato ormai per disperso con una ridicola santificazione dell’Io, un Io inessenziale ma rigonfio di aria fritta, un Io che cerca di puntellare la fragilità della propria esistenza riempiendosi di semplice fumo, più o meno tossico.

titlecard



Players è un progetto gratuito.

Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.

Grazie!
Similar Posts
Latest Posts from Players

3 Comments

  1. Bellissimo articolo. Complimenti.

  2. Analisi molto bella, ben fatta e illuminante. Però ora che ho appena finito di ri-vedere la seconda stagione mi sorgono dei dubbi, persino sulla centralità della Dipartita. In particolare gli eventi sull’invasione di Jarden da parte dei CS mi hanno fatto mettere in discussione l’evenemenzialità della serie. Mi spiego meglio:
    Ad un certo punto Meg dice (ironicamente) a Tom che i CS non possono entrare a Jarden perchè là nessuno è dipartito, e loro possono proliferare solo riempendo il vuoto e il dolore della scomparsa. Noi osservatori –a differenza di Tom– cogliamo il sarcasmo amaro di Meg, e infatti poi vediamo i CS entrare a Jarden grazie alla breccia (metaforica) aperta da Evie: “no miracle in Miracle”. È proprio questo paradosso che ha ispirato i miei dubbi: Evie diventa CS senza aver subito nessuna dipartita, e con il senno di poi anche il dolore di Patti e di Meg (che pure sono tra i CS più importanti, come hai giustamente fatto notare) affonda le radici in eventi precedenti al 14 ottobre (la relazione problematica con il Neil per Patti, la morte della madre per Meg e il padre violento e la madre scoraggiata nel caso di Evie).
    Quindi secondo me The Leftovers non gira tanto attorno alla Dipartita, quando al disagio di vivere. La Dipartita non è altro che la tangibilità allegorica delle cause del dolore di vivere, e i CS ne rappresentano allegoricamente le conseguenze. Questo non svalorizza la Dipartita, ma ne da un valore simbolico (non tanto come evento inspiegabile, quanto come origine del male); ma non svalorizza neanche la tua analisi “escatologica” (che ancora ora condivido pienamente), infatti penso che un’opera complessa e meditata come The Leftovers possa benissimo avere differenti piani di lettura. Tutto questo tralasciando le varie teorie sul fatto che la personalità sonnambula di Kevin possa essere un CS e che i CS sappiano di cosa c’è dopo la morte (ovvero della “dimensione dell’hotel”); teorie che appoggio io stesso ma che non sono vincolanti per le altre analisi, perchè appunto questo capolavoro può benissimo avere più concept.

    1. Ti ringrazio per i complimenti e per gli spunti di riflessione. Hai detto tutto tu, alla perfezione: esistono diversi piani interpretativi. Io sono straconvinto che tu abbia ragione e che l’aspetto psicologico-esistenziale del “disagio” sia assolutamente preminente. È la stessa messa in scena a veicolare tale significato. Io invece, come hai perfettamente notato, ho volutamente forzato i contenuti della serie in un senso quasi-teologico, ne ho “sfruttato” cioè la profondità per esprimere un pensiero.

Comments are closed.