La serie Loki si è conclusa da poco e in redazione ha generato una discussione sfociata in due recensioni di segno opposto. Ecco il mio parere (ciao sono Mara!) e quello di Claudio Magistrelli. 

In occasione del primo episodio avevo già avuto modo di esprimere quanto e perché io sia particolarmente legata al Loki dell’universo cinematografico Marvel, ma dopo quella prima puntata – per me decisamente promettente – mi sono ritrovata ad assistere non al dispiegamento di un arco narrativo pienamente sviluppato, ma al momento che lo precorre. La serie Loki è infatti la scaletta dei punti salienti che segnano la narrazione di una storia, anziché la narrazione della storia stessa.

Sei episodi, per l’ambizione del progetto – il character study di un personaggio e il rilancio con espansione del MCU – sono in effetti pochi, ed era inevitabile comprimere e affrettare alcuni snodi narrativi, ma questo non può giustificare il modo in cui ogni singola scena particolarmente gravida di significato – emotivo o narrativo che sia – accada senza essere introdotta da un adeguato lavoro di scavo psicologico. Abbiamo una semina e un risultato senza passare per la coltivazione. Loki è sostanzialmente un greatest hits di una serie quasi completamente priva di scene e momenti di svolgimento, raccordo e transizione.

Prendiamo il rapporto tra Sylvie e Loki. Tra i due personaggi/attori non c’è grandissima alchimia – nonostante l’impegno di Hiddleston – e l’attrazione che il dio dell’inganno prova per la sua variante femminile passa dall’essere una curiosità intellettuale, al divenire il sentimento più profondo e onesto mai provato nella sua lunga esistenza nello spazio di un episodio – Lamentis – che è sostanzialmente una puntata di Doctor Who, ma con il budget di Disney.

Che Loki si innamori di sé stesso è una scelta quanto mai appropriata se prendiamo in considerazione il narcisismo contaminato dalla sindrome dell’abbandono che motiva da sempre l’operato del protagonista, ma il tutto viene liquidato e condensato in una battuta di Mobius. Lo stesso Mobius, tra l’altro, che riesce a conquistare il rispetto e la fiducia di Loki. Anche in questo caso l’evoluzione del rapporto si realizza nello spazio di un paio di episodi e per motivi che dobbiamo prendere per buoni. Tirando le somme, il protagonista è il dio dell’inganno, un doppiogiochista, accoltellatore seriale, un esempio da manuale di delirio di onnipotenza, una personalità che trasforma il terrore di essere respinto in manipolazione del prossimo, ed ecco che con tale curriculum psico-emotivo riesce a esperire ben due prime volte: la prima amicizia e il primo amore, e solo perché è così che la trama chiede.

A questo punto devo chiarire che la serie è godibilissima, con un Hiddleston che dota Loki di fascino, vulnerabilità, doti e tempi comici che permettono all’intera storia di far valere il prezzo del biglietto di uno spettacolo pirotecnico inframezzato, però, da decine di dialoghi che spiegano ciò che non si è stati in grado di mettere in scena.

In quest’ottica, l’episodio finale di questa prima stagione – Loki è la prima e unica serie Marvel rinnovata – è perfettamente in linea con ciò che lo precede: metà tempo dedicata all’azione, e metà tempo sacrificato all’altare del dio spiegone. Ma finché è Tom Hiddleston a farsi carico di dialoghi non proprio brillanti, è facile non soffermarsi sullo script, nell’ultima puntata è però Kang (Jonathan Majors), il villain finale, a dover infliggere 15 minuti di chiacchiere in una riproposizione poco ispirata della scena di Neo al cospetto dell’Architetto.

Loki aveva tutto per essere il miglior prodotto dell’anno, tranne la capacità di essere all’altezza dell’idea che si è avuta. Tom Hiddleston mette una pezza gigantesca sulle mancanze della serie, ma è un crimine usarlo per mitigare le mancanze strutturali dello show, anziché dotarlo di materiale all’altezza del suo talento.

loki

Claudio Magistrelli

Cosa sia diventato il MCU e che impatto abbia avuto nel mutamento del medium cinematografico e seriale per come era inteso prima del suo avvento, probabilmente lo studieremo con la giusta lucidità tra un decennio. Dopo aver tradotto il linguaggio delle serie tv sul grande schermo, i Marvel Studios stanno intraprendendo il percorso inverso, ibridando i prodotti seriali e trasformandoli in qualcosa d’altro, diverso da ciò a cui siamo da sempre abituati.
 
WandaVision, The Falcon & the Winter Soldier, ma s
oprattutto Loki sono sì serie tv (anche se oggi davvero quel suffisso tv non ha più alcun senso), ma sono anche film spezzati, ponti narrativi necessari a trasportare lo spettatore da una fase all’altra del Grande Racconto Marvel, e infine esercizi di equilibrismo tra la necessità di offrire una ricompensa agli spettatori seriali e la volontà di rendere comprensibile il Grande Universo anche a chi guarda solo i film, o ne guarda persino solo alcuni.
 
In questo senso Loki compie un mezzo capolavoro nel riuscire a rimanere una serie, con i propri archi narrativi e il cliffhanger finale che punta in direzione della seconda stagione, pur dovendo sobbarcarsi il compito di introdurre il villain che minaccerà il MCU per il prossimo decennio (fino, ipotesi mia, a condurre a un qualche mega sconquasso che consentirà ai Marvel Studios di sostituire attori ormai vecchi con dei nuovi, senza perdere il filo della coerenza narrativa).Per riuscire in questo risultato, Loki si affida alla bravura del del suo protagonista, quel Tom Hiddleston capace di portare a casa 50 minuti di episodio a settimana semplicemente chiacchierando con qualcun altro davanti a un green screen, attività che occupa grosso modo un buon 85% dell’intera serie. Quel qualcun altro è spesso Sophia Di Martino, la cui Sylvie riapparirà credo abbastanza presto nel mosaico del MCU, ma non va sottovalutato nemmeno Jonathan Majors la cui istrionicità tiene a galla un episodio finale anti-climatico e composto quasi unicamente di spiegoni, ma di cardinale importanza in termini di evoluzione dell’universo narrativo.

 

Con Loki insomma i Marvel Studios hanno fatto quello che in molti si aspettavano in WandaVision, ovvero l’introduzione di personaggi e situazioni fondamentali per l’economia complessiva di una racconto ormai tentacolare e in continua espansione. Il successo è essere riusciti a farlo con un prodotto che funziona attraverso qualunque lente lo si guardi, sia quella dello stand alone sia quella del tassello in un mosaico più grande, e gestendo con estrema sicurezza e classe l’enorme quantità di rimandi e inside joke, indispensabili per giocare col pubblico delle serie Marvel, senza che questi spostassero mai il fulcro dell’attenzione dal rapporto tra i personaggi e la loro evoluzione.

Un’operazione così ben riuscita che l’introduzione di Kang, paventata all’inizio come evento finale che avrebbe svuotato di significato l’intera serie, si è rivelata invece un epilogo naturale e ben gestito, la cui importanza risuonerà nel MCU nel prossimo decennio su larga scala, ma che al contempo appare perfettamente funzionale al clima d’attesa di una seconda stagione, come da tradizione per ogni finale di stagione di una serie tv.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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