A leggere le tante entusiastiche recensioni apparse in rete a ridosso della prima proiezione italiana – avvenuta nell’occasione del Torino Film Festival – Revenge (Coralie Fargeat, 2018), il rape and revenge che al rape and revenge non deve nulla – almeno secondo le dichiarazioni della regista – pare stia diventando un prodotto molto atteso, soprattutto perché (a detta di molti) sarebbe in grado di soverchiare un genere che ha sempre avuto e continua a conservare alcune ambiguità. Il film avrebbe il merito di fissare un punto di non ritorno sulle intenzioni narrative del filone, facendo chiarezza sul messaggio che, secondo morale corrente, questi prodotti controversi dovrebbero veicolare. In Revenge, però, il “rape” è tanto pretestuoso quanto la “revenge” promossa sin dal titolo, e il film appare piuttosto come un prodotto confuso che, in maniera assai maldestra, finisce per mescolare il punto di vista dell’autrice – amante degli action movie e della tradizione grandguignolesca, con una evidente passione per il grafismo e la retorica pulp – con quello dei personaggi – vittime e carnefici instabili e impersonali – intralciando infine quello del pubblico implicito, tanto orientabile quanto imprevedibile nella sua eventuale lettura.

Sulle prime lo sguardo della Fargeat sembra ricalcare quello di Tarantino, ne scimmiotta la curiosità (quando non l’ossessione) maschile ed eterosessuale per il corpo femminile, ne osserva le movenze e le forme, ne esalta la giocosità e la malia, lo separa dallo spirito e ne nega la completezza per farne puro oggetto cultuale. Ma se Tarantino presta molta attenzione a non corrompere quella visione, offrendo una prospettiva precisa e avveduta della violenza e della vendetta, cui i personaggi rispondono in modo diegeticamente coerente, la Fargeat commette l’errore di “copiare” male, di appropriarsi di uno sguardo e posarlo su uno scenario equivoco e, soprattutto, di prestarlo a una protagonista inidonea a incarnarlo. Perché? Perché, prima che una sexy macchina da guerra, un’eroina stoica e vendicativa, la Jennifer di Revenge è una vittima di stupro. Se Tarantino – che è un regista tanto raffinato quanto oculato nelle scelte di messinscena – mantiene ben salde le redini del discorso narrativo – “quello che ha importanza non sono gli avvenimenti raccontati, ma il modo in cui il narratore li ha fatti conoscere” (T. Todorov) – non tradendo mai (soprattutto nell’uso delle oggettive) i suoi personaggi e la relativa cosmogonia, la Fargeat, con scelte che rimbalzano da un’istanza narratrice a una narrataria, contrapponendo storia e discorso e mettendo in collisione l’approccio estetico con la disposizione morale, contribuisce a complicare e banalizzare un genere già di per sé sfuggente e spinoso, dove spesso si fa fatica a capire se il ruolo dominante sia quello della vittima o del carnefice e se il target di riferimento siano i voyeur legittimati o piuttosto gli spettatori vessati in cerca di magre consolazioni. Alla Fargeat tutto ciò non sembra interessare, tanto più che dichiara candidamente di non aver né visto i film del filone, né di aver mai voluto realizzare un rape and revenge. E infatti il suo film non ha nulla dell’originalità e della forza eversiva decantate in giro, ma è al contrario un prodotto immaturo, insignificante e ben più ambiguo dei suoi predecessori, compreso quello che Meir Zarchi realizzò nell’ormai lontano 1978 (Non Violentate Jennifer).

La Fargeat indugia sulle chiappe sode della bellissima Matilda Lutz, la veste e la sveste ripetutamente con la macchina da presa, si posa sulla sua gestualità ammiccante per poi guardare altrove durante la scena dello stupro. E non per un qualche pudore, ma perché sa bene che non può passare dalla costruzione patinata di una sessualità consapevole, esplicita e giocosa, a quella tragica e sofferta di uno stupro. La coesistenza di due registri tanto diversi nello stesso film non funzionerebbe mai, e la Fargeat – è chiarissimo – vuole tornare presto a raccontarci lo Stallone di Rambo, non la Foster di Testimone D’Accusa. Perciò, quello che fa è glissare sul dramma della violenza sessuale per concentrarsi sulle atroci conseguenze della vendetta. Eppure, non esiste momento torture porn, per quanto osservato, dilungato ed esasperato che possa supplire la scena dello stupro e giustificare la foga, il delirio o la disumanità di un’autentica rivalsa. In Revenge, al contrario, il focus è posto tutto sugli effetti splatter e la vendetta finisce per assomigliare, man mano che il film procede, a una staffetta alla ricerca di quegli effetti, mentre – è giusto ribadirlo – la protagonista continua ad essere fotografata nel deserto come in un servizio per Maxim, in stracci succinti, sexy ferite di guerra e pose plastiche.

Per chiarirsi: quando Tarantino ci mostra Beatrix in Kill Bill vol. 1, violata, inerme e in cerca di vendetta, non ce ne offre mai un ritratto erotizzato. Anche quando il regista temporeggia sul suo corpo sappiamo bene che, (come noto) ha un debole per i piedi di donna, in quel momento è Beatrix a guardarne le dita tentando di riacquistarne il controllo. Il punto di vista dell’autore non prevale su quello degli agenti in campo, non intralcia mai il loro vissuto, e nel delineare il corpo della Thurman non mescola mai il seducente e il violato. La Fargeat invece, segue il culo della Lutz attraverso numerose soggettive (irreali) e, cosa peggiore, continua a farlo anche dopo l’avvenuto stupro, con il risultato che il punto di vista della mdp, spesso e volentieri, coincide idealmente con quello degli stupratori assassini. Cosa vorrà dirci? Nessun timore, non lo sa nemmeno lei.

Revenge è un film estetizzante, iperbolico, superficialmente curato, dotato di una suadente fotografia e un interessante accompagnamento musicale e contraddistinto da un linguaggio pop anche divertente, che purtroppo tradisce una natura puerile nell’articolazione del punto di vista e nella composizione della sceneggiatura, uno script fortemente penalizzato nel ritmo e nella logica da alcune lungaggini e diverse ingenuità. E anche se la credibilità e la serietà non hanno cittadinanza in tutti i film e in tutti i generi, esiste una coerenza interna che andrebbe salvaguardata, pena la temutissima mediocrità.



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