La “fase quattro” del MCU – il Marvel Cinematic Universe – si è ufficialmente aperta con l’uscita nelle sale e il rilascio sulla piattaforma streaming Disney+ del 24° colossal supereroistico prodotto dai Marvel Studios. Black Widow (Cate Shortland, 2021), il film dedicato a Natasha Romanoff (Scarlett Johansson), è tuttavia un capitolo sui generis, un prodotto poco interessato a “compilare” la figura della Vedova Nera – apparsa per la prima volta in Iron Man 2 (Jon Favreau, 2010) e l’ultima in Avengers: Endgame (Anthony e Joe Russo, 2019) – sfruttandone funzioni e connessioni nell’ottica della narrazione composita del franchise, bensì uno spin off più incline a ossequiare quello che forse, più che un personaggio, è divenuto il simbolo di un’epoca di grandi cambiamenti – poiché ne ha attraversato, evolvendosi, le fasi cruciali – che hanno interessato i personaggi femminili e il loro ruolo all’interno del cinema.
A differenza dei suoi colleghi supereroi che, a seconda dell’ambientazione, sono invecchiati o ringiovaniti con pochi cambiamenti sostanziali, Natasha Romanoff ha visto nel tempo mutare il suo aspetto, la sua posizione e il suo contributo alla “causa” in maniera piuttosto arbitraria. Essa è sempre stata un’entità senza identità, un valore incostante del potere femminile – prima sessuale, poi sociale, infine etico – e una figura adattabile alle forze – quelle dei comprimari maschili – in gioco. Eppure, non essendo mai la stessa, è nel tempo divenuta un personaggio sfaccettato e complesso la cui potenza oggi risiede nel suo misticismo, parzialmente scandagliato in questo strategico capitolo.
Il film, infatti, non sceglie banalmente di raccontare la nascita e l’affermazione di Black Widow come fa, ad esempio, l’inquadrato Red Sparrow (Francis Lawrence, 2019) – perfettamente in linea con la rappresentazione archetipica delle storie a fumetti – ma sembra piuttosto mettere in atto una profilazione in grado di motivare e connettere tutte le Natasha Romanoff apparse in un decennio di cinema. Ogni parte della storia sembra perseguire (va detto, non sempre in modo efficace ed equilibrato) questo scopo offrendo del personaggio, tra drammatizzazioni narrative (l’infanzia difficile e le complicate scelte di vita) e sdrammatizzazioni retoriche (le citazioni e l’ironia autoreferenziali), una donna che, prima di conoscere e salvare il mondo, ha esplorato a lungo e avuto modo di determinare se stessa.
Ecco perché la narrazione si concentra nella fase di maturità della Romanoff e si colloca cronologicamente tra la crisi di coscienza sperimentata in Captain America: Civil War (Anthony e Joe Russo, 2016) – che in qualche modo risolve i suoi conflitti interiori – e prima dell’Infinity War e del “grande sacrificio” di Endgame – a cui può riservare una motivazione più convincente di quella puramente eroica (di ruolo) che avrebbe offerto qualunque altro Avenger. Pertanto, si può dire che la prova a cui è sottoposta Natasha Romanoff in Black Widow non è di mera forza, ma di autoanalisi ed emancipazione da tutti gli obblighi imposti dalle società di appartenenza e di adozione, dalle privazioni subite e dalle illusioni introiettate. Non a caso il villain Dreykov (Ray Winstone) è un subdolo manipolatore che li incarna tutti contemporaneamente: è un padre padrone, è un vile sfruttatore, è un abile lestofante, ed è uno stalker professionista; e anche se il suo potere è tutt’altro che sovraumano, la sua follia dominatrice lo rende inavvicinabile, intoccabile, (quasi) invincibile. Sconfiggerlo permetterà a Natasha di conquistare la libertà – di amare, di sapere, di scegliere – e ottenere finalmente un’identità.
Nel mostrare questo insolito viaggio dell’eroe, Black Widow si propone come cinecomic dal taglio vagamente spionistico in cui prevalgono i traumi personali – alla maniera di Atomica Bionda (David Leitch, 2017) con un’attenzione preziosa per lo scontro corpo a corpo e le contusioni evidenti – e i drammi familiari – simili alle cupe pantomime della serie The Americans (Joe Weisberg, 2013-2018). L’azione, diversamente dai classici film Marvel, sembra originare da un’irreprimibile pulsione di libertà che da uno spirito di competizione o un impulso distruttivo, e questo fa sì che essa si configuri come un’affrancazione piuttosto che come atto di pura violenza. Se è così nella lotta iniziale con la sorellastra Yelena Belova (Florence Pugh), che ricorda un passo a due estremamente fisico e passionale, lo è altrettanto nel combattimento aereo in bilico fra le macerie di un mondo (giustamente) alla deriva in cui non c’è più spazio per qualunque remora o paura.
Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.
Grazie!