Justified City Primeval

Justified: City Primeval

Il Kentucky è uno stato mentale.

Justified: City Premeval non è firmato da Graham Yost, showrunner delle precedenti stagioni, a raccogliere il testimone abbiamo Dave Andron e Michael Dinner che in passato hanno già firmato diversi episodi della serie questa volta ambientata a Chicago: conseguentemente non siamo introdotti negli episodi dal trascinante opening in bluegrass che ci faceva sentire cittadini onorari della contea di Harlan già dopo le prime due note. Ma il Kentucky e Raylan Givens sono una cosa sola e dove c’è l’uno, si avverte anche la presenza dell’altro. Timothy Olyphant torna a indossare l’iconico Stetson e se il tempo che passa gli ha regalato una fascinosa brizzolatura, qualche cautela in più e una figlia adolescente, di certo non gli ha portato via quella caustica ostinazione da lawman forgiato nel profondo sud.

Ritroviamo, dunque, il nostro Marshal un po’ più ombroso, più accorto e guardingo, d’altra parte non siamo più nell’era seriale in cui si poteva mostrare un tutore dell’ordine sparare a vista in pieno giorno e minacciare il criminale di turno con abrasivo sarcasmo, e di questo gli autori sono estremamente consapevoli, ma per quanto in Justified i proiettili sono sempre stati importanti, non lo sono mai stati più delle parole. Lo show si è sempre distinto per essere, ancor prima che una fucina di straordinarie sequenze da moderno western, un OK Corral dialettico. Raylan ha quindi un braccio legato dietro la schiena, vero, ma la sua ironia asciutta e pungente è ancora tutta lì, a servizio di un’investigazione che si rivela essere particolarmente complicata, non solo per le forze centripete in gioco, ma perché il villain di turno ha dalla sua il più potente degli alleati: la fortuna sfacciata. Con il personaggio di Clement Mansell gli autori hanno cercato di dar vita a un avversario all’altezza del ritorno di Raylan e, per quanto l’intuizione del deliquente che avrebbe voluto sfondare come musicista avrebbe potuto funzionare, di fatto Mansell nonostante la pirotecnica prova di Boyd Holbrook, non lascia il segno se non per essere benedetto dalla stupidità delle persone che lo circondano. Completano il cast la fidanzata complice pentita che finisce nel grazioso mucchio delle altre bellezze problematiche (da Carla Cugino a Amy Smart) viste nella serie. Menzione d’onore, invece, per la coprotagonista femminile interpretata da Aunjanue Ellis, un’ambiziosa avvocata penale che sembra uscita da The Wire.

Una bella occasione per rivedere sullo schermo Raylan Givens, dunque, merito soprattutto di Olyphant che sprigiona un carisma che fa letteratura a sé, ma pur sempre un ritorno che mette più voglia di rivedere le precedenti stagioni che non a volerne altre se non nelle battute finali, quando gli autori regalano al pubblico e a Raylan quello che sia noi che lui volevamo davvero.

the bear season 2

The Bear Season 2

Nel 2005 BBC ha riproposto, attualizzandoli, alcuni dei grandi classici di Shakespeare. Il Macbeth è stato ambientato nella cucina di un ristorante stellato con James MacAvoy nel ruolo di protagonista quale chef divorato dall’ambizione. Scelta quanto mai azzeccata perché in effetti la cucina è un grande luogo di potere, un vero e proprio regno da conquistare e governare, palco ideale per snodi e sviluppi narrativi, per la messa in scena di drammi e psicodrammi personali, famigliari e sociali. The Bear sfrutta le potenzialità narrative ed espressive del setting presentandoci la storia di Carmen Berzatto, uno chef giovane e straordinariamente dotato che eredita la tavola calda del fratello maggiore la cui presenza è tanto ingombrante da morto quanto lo era da vivo. La serie è entrata subito e di prepotenza nell’immaginario collettivo per la riuscita commistione di dramma e comedy, per la scrittura agile che ha cesellato ogni personaggio, mettendone in evidenza asperità e problematicità, per la regia che ha saputo gestire il carosello di intrecci narrativi ed emotivi, per la selezione musicale diventata personaggio aggiunto insieme a una plumbea e fredda Chicago, e naturalmente, per il catchy “Yes Chef!” che è rimbalzato su tutti i social.

Christopher Storer, nella seconda stagione, sceglie di decentrare Carmy facendo  avvicendare al centro dello schermo/palcoscenico gli altri co-protagonisti. Mossa narrativa efficace che sfrutta le doti attoriali del notevole cast, ma che al tempo stesso mostra quanto poco ci sia ancora da dire sul protagonista e sulla premessa su cui si fonda lo show. Non a caso gli episodi migliori sono il quinto e il settimo, puntate in cui  Carmy è appena presente e quando lo è, come per tutto l’arco narrativo che lo riguarda, è accompagnato da Claire, il love interest flagellato da una scrittura avvilente. Sulla carta la ragazza dovrebbe essere una giovane e risoluta dottoressa, ma di fatto si presenta come una una sorta di Joy Potter che non ce l’ha fatta, talmente perfetta e al pedissequo servizio delle esigenze del protagonista che sarebbe potuta tranquillamente essere il parto della fantasia di Carmy. Un escamotage del genere avrebbe avuto anche molto più senso visto che lo scopo dell’intera storia è stato quello di far vedere come Carmy sia disperatamente bisognoso di amore, ma sotto sotto convinto non solo di non meritarlo, ma di non poterlo avere perché essere degno d’amore significa trovare un equilibrio esistenziale ma, per continuare a eccellere nel suo lavoro, Carmy ha bisogno di essere ossessivamente divorato dalla compulsione a essere il migliore, a mirare alla perfezione e la perfezione, per essere raggiunta, esige tutto.

The Bear è stata rinnovata per una terza stagione e Christopher Storer stavolta dovrà davvero capire di cosa parla la serie.

star trek strange new worlds

Star Trek: Strange New Worlds season 2

Strange New Worlds è ormai uno straordinario Star Trek che riesce a essere, con l’equilibrio di un giocoliere, fedele nella continuity alla serie originale, ma anche originale nel proporci il suo take su tutti i personaggi dieci anni prima di diventare l’equipaggio capitanato da Jim Kirk.

Non sempre riesce tutto, e SNW è particolarmente debole quando tratta le storie d’amore mancando nel contrapporre a personaggi carismatici quali il Pike di Anson Mount e lo Spock di Ethan Peck controparti femminili altrettanto incisive (il capitano Batel, una sprecatissima Melanie Scrofano, e l’infermiera Chapel interpretata da Jess Bush) che non siano, nonostante gli strenui sforzi nel dipingerle tostissime e super in gamba, poco più che plot device per instradare Pike e Spock sui binari narrativi su cui noi tutti sappiamo hanno viaggiato.

La seconda stagione si focalizza molto sulla giovane Uhura (Celia Rose Gooding), e anche qui si nota l’impegno nel farcela piacere a tutti i costi, ma nonostante alcune forzature e debolezze la serie nell’insieme è riuscita a creare un gruppo affiatato al quale non solo affezionarsi, ma con cui divertirsi, perché nella sua vera essenza Star Trek ha sempre cercato di trasmettere la curiosità, il piacere, l’entusiasmo per la scoperta di nuovi mondi, nuove forme di vita, altre civiltà, avventure impossibili da godersi senza la giusta dose di ironia e autoironia. In quest’ottica, ecco che SNW si è potuto permettere di alternare episodi a tinte fosche a funzionali divagazioni come la puntata musical (che deve tanto a Once More with Feeling) e un bizzarro e divertente crossover con Lower Decks, la serie animata che è un amorevole e buffo tributo ai nerd in generale, e ai trekkies in particolare. 

foundation

Foundation Season 2

Dell’opera originale di Asimov resta sempre meno, se non l’intento di mostrare le cronache di un Impero millenario che si avvia inesorabilmente verso la sua morte dopo aver lottato contro i segni evidenti della sua decadenza mirando alla restaurazione anziché al cambiamento.

Più si va avanti, infatti, e più diventa evidente che Fondazione è la serie di Goyer artefice dell’introduzione della novità più rilevante: i cloni dinastici. L’arco narrativo incentrato sulla trinità dei Cleon è ormai elemento caratterizzante della serie molto più dell’istituzione della Fondazione di Hari Seldon, personaggio passato dall’essere la mente matematica più geniale del secolo, a una via di mezzo tra un profeta e la Sibilla Cumana.

La prima stagione si era fatta notare anche per gli altissimi valori produttivi che vengono confermati nella seconda attraverso la volontà di restituire un prodotto visivamente d’impatto, potente e magnifico, la cui estetica amplifica la luccicante disfatta di un potere che non si rassegna alla sua caduta. Le tematiche che animano la serie sono quelle che accompagnano il genere umano da sempre. La serie rappresenta infatti la contrapposizione tra il desiderio di immortalità e la caducità dell’esistenza, l’aspirazione a una società democratica contro una più rassicurante e deresponsabilizzante dittatura illuminata, la spiritualità opposta a un freddo determinismo. Da una parte il progetto mandato avanti da Seldon, dall’altra l’Impero incarnato dai Cloni. Come spesso accade, però, un terzo elemento si inserisce a reclamare il proprio spazio e il proprio potere: Lady Damerzel (Laura Birn) alla cui storia è dedicata quello che forse è l’episodio migliore della stagione e che spinge a riconsiderare quanto visto finora.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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