Lo ammetto, ai tempi dell’uscita de L’Alba dei morti viventi (Dawn of the Dead, Zack Snyder, 2004) – remake ambizioso del cultissimo Zombi (Dawn of the Dead, George A. Romero, 1978) – fui molto delusa dal rimaneggiamento di Snyder, ma ancor di più dal trattamento che lo stesso riservava alla natura flemmatica e passiva degli zombi che, da creature claudicanti e portatrici di un’ansia cronica ma affrontabile, diventavano bestie aggressive portatrici di ansie acute e ingestibili.
Attorno alle figure mostruose, prima con Victor Halperin, passando per Jacques Tourneur e poi con George A. Romero, che rappresentavano il timore della morte fisica e spirituale, si andava designando una nuova angoscia la cui gestione non poteva più godere del tempo o della riflessione, ma solo di spazio e azione, riparo e fuga. Alla fine lo zombi aveva smesso di rappresentare qualcos’altro, una paura o un lutto da elaborare, e aveva iniziato a essere performativo, mostrando il tempo scaduto di ogni nostra possibilità e rivelando il danno che avevamo causato al nostro mondo e alla nostra umanità, sempre meno “malandate e moribonde” e più “contaminate e contagiose”.
Con L’Alba dei morti viventi Snyder ci restitutiva la colpa della nostra condizione, suggerendoci che il tempo per fare le vittime era sostanzialmente finito e che ci meritavamo ogni sciagura. Naturalmente Snyder non fu l’unico a cogliere l’opportunità di una rivisitazione del morto vivente e lo sfruttamento di una diversa maniera di pensare e realizzare gli zombie-movie – gli esempi non sono solo coevi bensì, con le dovute differenze, anche antecedenti – ma fu senz’altro il primo a rimaneggiare la figura dello zombi classico cimentandosi nel remake di uno dei capisaldi del genere.
Ed è quello che sembra voler fare anche oggi con Army of the Dead (Zack Snyder, 2021), la recentissima produzione Netflix che richiama, ribaltandone gli spazi e la rapidità d’azione, La Terra dei morti viventi (The Land of the Dead, George A. Romero, 2005) spogliandola della mirata critica politico-sociale e sostituendo ad essa un pastiche dove tutto e tutti appaiono discutibili e sacrificabili – persone, luoghi, scelte – e l’organizzazione, a ogni livello, è di stampo criminale. Non a caso la missione di approvvigionamento del film di Romero diviene qui una rapina, certamente sui generis, ma lontana dagli interessi della comunità e dettata dall’avidità e dalle mire dei singoli, mentre gli zombi, d’altro canto, sembrano aver recuperato un po’ dell’umanità perduta dai vivi…
A seguito di un’epidemia zombi, Las Vegas è stata messa in quarantena ed è territorio off-limits per chiunque non voglia trasformarsi in un mangia-cervelli. L’impavido veterano Scott Ward (Dave Bautista), che aveva contribuito ad arginare l’epidemia qualche anno addietro per poi essere dimenticato dalle istituzioni, è ingaggiato da un ricco magnate per recuperare il contenuto del caveau di uno dei casinò prima che il Governo, come da piano risolutivo, rada al suolo la zona con una testata nucleare. Grazie all’aiuto di un gruppo di mercenari e una figlia ribelle, Scott partirà alla volta di Las Vegas per portare a termine il colpo grosso, dove scoprirà che gli zombi non sono del tutto sprovveduti.
Sul piano della scrittura il film mostra tutta una serie di debolezze. Dalla stesura del plot ai dialoghi – salvati in parte da un umorismo autoreferenziale – Army of the Dead risulta grossolano e impreciso, tanto che alcune storyline non trovano nemmeno un degno epilogo e, quando lo trovano, appare terribilmente posticcio.
La conseguenza più evidente di questi tagli (con l’accetta) è una generale mancanza di organicità narrativa, di una strategia di coinvolgimento, ulteriormente penalizzate dalla commistione di generi – l’heist movie, il disaster movie e lo zombie movie – che non trovano un punto d’appoggio l’uno nell’altro restando drammaturgicamente slegati. L’eccessivo metraggio, infine, infligge il colpo finale a una competizione tra storie che necessiterebbero di una spinta emotiva o cerebrale per giungere al traguardo, e che invece arrancano ben prima della fine.
Eppure, è giusto sottolinearlo, Army of the Dead è un vero gioiello quando ci si limita a osservarlo per quello che forse vuole essere, un capolavoro dell’espressionismo astratto, capace di tenere insieme, attraverso le soluzioni di ripresa, i tagli di montaggio e il grafismo fotografico, un universo tridimensionale e incredibilmente tattile.
Grazie a un uso abilissimo dell’obiettivo Canon 50mm f / .0.95, soprannominato Canon Dream Lens, la ripresa ravvicinata e la sfocatura collaterale offrono una resa convulsa dello scontro corpo a corpo e una buona dose di imprevedibilità, requisiti non trascurabili quando si tratta di mettere in scena un soffocante e sanguinolento film di zombi. Per contro, la minuziosa e vivida costruzione scenografica – a proposito, l’intera Las Vegas è stata scannerizzata, digitalizzata e distrutta ad hoc in CGI – e la magniloquente esibizione nei campi lunghi restituiscono a colpo d’occhio la fatiscenza del consumismo e il tramonto del progresso, ormai soppiantati da una natura 2.0, morta e risorta, feroce e (ri)vendicativa.
Diciamolo, in pochi maneggiano la materia cinematografica come Zack Snyder e, al netto dei suoi eccessi (auto)celebrativi, non si può non riconoscere che l’immersività non è certo un suo problema e, a volte, può essere tutto ciò che serve.
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