Nel corso della loro venticinquennale carriera, sono molte le definizioni che si sono attribuite alla band svedese degli Opeth, ma il termine più appropriato è probabilmente “imprevedibile”. E’ dal 1990, che la band mai una volta ha giocato sul sicuro, trovando sempre il coraggio di distinguersi dalla moltitudine del nordic-metal (anche nel periodo in cui era sulla cresta dell’onda) e allargando il discorso a strutture musicali più ricercate e variegate.

Sorceress non fa che confermare questa tendenza. Basta affidarsi al brano d’apertura – Persephone, un madrigale acustico molto raffinato – e alla seguente title track che parte con un’intro alla The Devil’s Orchard e Eternal Rains Will Come per poi lasciar spazio ad un riff che potrebbe ricordare i vecchi Opeth, per rendersi conto che in questo loro nuovo album c’è sì molto spazio per organo e batteria e altri suoni, ma che non mancano divagazioni folk-rock e un cantato stoner metal.

Sorceress è sicuramente l’album più vario e completo che gli Opeth abbiano realizzato da quando hanno deciso di miscelare il loro approccio dark-metal alle suggestioni prog-rock più genuine, il tutto senza perdere di vista le loro sonorità più oscure e le linee melodiche più soft, dato che hanno definitivamente abbandonato il cantato growl. E’ anche l’album che usufruisce maggiormente della serenità di una band che, pur continuando a dividere critica e pubblico, ormai non ha più bisogno di dimostrare nulla a nessuno e che può permettersi ancora una volta di sovvertire liberamente i propri canoni di riferimento.

Mai come in questo ultimo album le vocalità pulite e possenti del cantante/chitarrista Mikael Åkerfeldt e le esecuzioni strumentali della band si amalgamano in sincronie impareggiabili, dando vita a ceselli ed arabeschi che da tempo non si sentivano più, se non andando addirittura a ripescare il meglio del rock anni 70 di Jethro Tull, Led Zeppelin, Genesis, Yes, Van Der Graaf e altri masters of rock…ed il bello è che queste sonorità immortali e squisitamente vintage suonano genuine, come se fossero state composte soltanto ieri.

Certo, qualche “integralista dei Seventies” potrebbe anche storcere il naso di fronte ai passaggi più nettamente influenzati da band come i Deep Purple (sentitevi Chrysalis e poi ditemi se non potrebbe tranquillamente essere una delle tracce non incluse nell’album Burn…) quando non addirittura i Pink Floyd del miglior periodo psichedelico, ma sbaglierebbe a considerare l’operazione come una semplice trovata nostalgica.

Akerfeldt e soci sono stati chiaramente influenzati da Steven Wilson e hanno passato parecchio tempo ad ascoltare i Jethro Tull e la Scuola di Canterbury degli anni ’60 (quella che avrebbe dato vita a band come Soft Machine e Camel) e brani come Will o the Wisp e The Wilde Flowers stanno lì a dimostrarcelo. L’attuale line-up sembrerebbe davvero essere la migliore di sempre tra quelle (numerose) che si sono avvicendate in tutti questi anni e ciò giustifica la genesi relativamente breve (solo cinque o sei mesi) per un album così complesso come Sorceress registrato, non a caso, nei Rockfield Studios di Monmouth (ci sono passati i Queen, gli Hawkwind e i Judas Priest).

A completare questo “gioiellino”, nel quale la mia preferenza va alla possente Strange Brew, non mancano anche una copertina molto bella e testi di buon livello che trattano “temi universali” nelle loro dinamiche più oscure e misantropiche, come la gelosia, la paranoia e le manipolazioni mentali… senza naturalmente dimenticare l’Amore: malattia e incantesimo da sorceress (maga) allo stesso tempo.

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