Ci sono thriller belli e brutti, thrilleroni che danno le palpitazioni, thriller accettabili da sfogliare sotto l’ombrellone e thrilleracci il cui successo letterario sfugge le nostre limitate capacità (pre)cognitive.
Pochi giorni fa Cecilia vi ha dato parecchi ottimi consigli di lettura in attesa che Gillian Flynn torni a sconvolgerci i cuori e le menti, ricordandoci che non è una mosca bianca, ma forse solo la prima valida autrice contemporanea che ha saputo davvero imporsi con forza sulla scena internazionale.

Tuttavia per ogni duo Gillian Flynn/David Fincher che ci regala due ottime versioni di una storia magistrale dobbiamo sorbirci una tale quantità di thrilleracci infami francamente inaccettabile, almeno per chi di lavoro non deve riempire a basso costo il palinsesto notturno di Rete 4 o le librerie Giunti nella sezione gialli.

Se è persino fisiologico che nel mondo editoriale c’è chi badi alla qualità e chi campi di sostanza, passando sul grande schermo (e considerando quanto costi in termini economi il suddetto passaggio), la domanda sorge spontanea: ma con tanti bei mystery in giro, chi glielo fa fare, di pescare certi romanzi?

Proprio in questo periodo mi sono sventuratamente imbarcata nell’avventura di testare praticamente a scatola chiusa i romanzi da cui sono stati tratti due thriller molto attesi della stagione autunnale, in questi giorni nelle sale italiane. L’intento voleva essere quello di arrivare preparata alla visione, di fare qualche considerazione sul processo di adattamento, ma mentre leggevo, un altro quesito mi salito dalle viscere alle dita sulla tastiera: perché scegliere proprio questi due romanzi fallimentari, seppur in modo completamente differente fra loro? Perché? (NB questa domanda è da leggersi con una nota di cupa, lamentosa disperazione, tipo Sean Connery che scopre che Ginevra gli mette le corna con Richard Gere ne Il Primo Cavaliere).

La risposta potrebbe essere il vile denaro, certo, ma il punto è: si può davvero cavar un buon film da un romanzo mediocre? Se sì, è uno sforzo che vale la pena di compiere?

La Ragazza del Treno di Paula Atkins

laragazzadeltrenoNon serviva certo grande perspicacia per fiutare l’intento urlato sin dalla copertina di questo libro: essere il nuovo Gone Girl, vivere sulla scia del titolo più celebre della Flynn e tentare di portare a casa il risultato.
Alla Atkins, che condivide con la collega giusto il passato giornalistico, bisogna almeno riconoscere di aver fatto centro: missione compiuta, The Girl on the Train è stato il thriller del 2015, riuscendo a centrare vendite record persino in un mercato disperante come quello italiano. Il suo successo letterario ha sorpassato, almeno per volumi, quello del libro di cui è una rozza copia carbone.

Il punto è: perché? Davvero la storia di una donna con un matrimonio finito e un profondo problema con l’alcool che si ritrova nella scomoda situazione di non sapere se sia testimone o carnefice di un omicidio meritava tanto successo? Certo ci sono più o meno tutti gli ingredienti per dare quel retrogusto flynniano: abbiamo non una, bensì tre donne protagoniste in un certo qual modo fornite di lato oscuro, abbiamo gli uomini che odiano le donne, abbiamo investigatori pericolosamente inquisitori, abbiamo persone genuinamente sgradevoli a guidarci nella storia.
Eppure basta grattare via la superficie dark ed ecco emerge con facilità presupposti ben diversi da quelli che muovono la Flynn. Per esempio le tre protagoniste di La Ragazza del Treno condividono la maternità come cardine attorno a cui svoltano le loro esistenze prima superficiali (e ti pareva), il loro essere madri come qualità redimente (maddai) o come dannazione quando la riproduzione è mancata o tradita (ma no).

Se prendiamo in esame il contenuto poliziesco la situazione si fa imbarazzante, con un colpevole così mal celato che si innesta l’effetto contrario e uno prosegue sicuro la lettura, perché sicuramente la soluzione non può essere così semplice, e invece. Certo non è che ogni thriller deve avere un omicidio risolvibile via intricatissimi enigmi, ci sta anche un po’ di sano realismo terra terra, però se la sensazione non sta nel mystery e i personaggi non hanno nulla della sulfureità della Flynn, cos’è che ha tenuto milioni di persone con il fiato sospeso? Forse il fatto che questa è la versione accessibile della Flynn, scevra com’è di qualsiasi sfida per il lettore, una sorta di Flynn for dummies?
A inabissare quel poco di intrigante che vanta l’intreccio poi ci pensa lo stile di scrittura della Hawkins, sicuramente non letterario, per nulla impegnativo, persino incapace di essere quell’onesto ma appagante page turner commerciale che sotto l’ombrellone paga sempre. È piatto, senza un guizzo, una personalità, un ritmo. L’orizzonte narrativo della Hakwins è così piatto che ogni minima perturbazione è già visibile in lontananza.

Insomma, se c’era un libro che Hollywood poteva redimere rientrando nel contempo dell’investimento, quello era La Ragazza del Treno: bastava sistemarne il ritmo della narrazione, sbozzare meglio i personaggi, smussare certi spigoli del giallo centrale. Invece il cinema si è dimostrato più che altro desideroso di replicare l’operazione letteraria: un adattamento per nulla ispirato o ricco d’iniziativa. Ad eccezione di uno sforzo di casting per salvare la faccia, è chiaro che si ha in mente un unico obiettivo: riportare in sala il pubblico pagante di Fincher, calcando sui deboli punti di congiunzione tra i due film, che non riguardano minimamente la qualità o la riuscita dell’epigono. Operazione che ha funzionato alla stragrande nonostante la qualità risibile del risultato finale, guarda caso in particolare nel nostro Paese.

Tony & Susan di Austin Wright

tonyesusanSparare sul thrillerone da ombrellone campione di vendite però è un esercizio fin troppo semplice, giusto? Insomma, già delle premesse è lecito aspettarsi anche il peggio, una commercialata senz’anima: ogni annata ne ha una, constatare con mano che la qualità è tutt’altro che eccelsa non è certo una gran sorpresa.

La musica però cambia quando il libro porta stampato sulla copertina il marchio Adelphi, una delle case editrici italiane che si fregia con maggior orgoglio della letterarietà di razza del proprio catalogo. Se poi un fine e distinto stilista e regista come Tom Ford si affida a quello stesso romanzo per superare il difficile scoglio del secondo film, uno è autorizzato ad andare sulla fiducia, no?

Assolutamente no: Tony & Susan è di gran lunga il peggiore dei due romanzi che vi consiglio caldamente di evitare accuratamente in questo post. Se il primo magari vi ha già fregato sull’onda della sua popolarità e pensate di rifarvi affidandovi con sicurezza al rigore letterario di Adelphi, siete in grave pericolo; quello di impegnare il tempo necessario al leggere ben 400 pagine, per ritrovarvi con in mano un pugno di mosche.

Un pericolo che è difficile da definire, come un po’ ogni dettaglio rilevante della trama di Tony & Susan. Abbiamo una cornice – la ricca e appagata Susan che legge il romanzo inviatole dall’ex marito – e una storia centrale, un meta romanzo – il thriller violento e angosciante dell’ex, di cui vengono proposti ampi stralci al lettore. Il problema principale è che Austin Wright – che se la cava indubbiamente meglio di Paula Hawkins narrativamente parlando – ha per le mani uno spunto ma nessun’idea per metterlo a fuoco e svilupparlo.

L’intento vorrebbe essere quello di suggerire una sorta di vendetta dell’ex, sublimata attraverso le pagine del romanzo. Una storia violenta che faccia soffrire Susan lettrice, che la faccia immedesimare nel calvario di Tony, tranquillo professore di matematica protagonista di una notte da incubo sulle strade texane che gli stravolgerà la vita, la famiglia e ogni certezza morale. Chissà, forse l’intento è invece quello di farla dubitare di ogni ombra, ogni accenno che possa suggerire che il marito si stia prendendo gioco di lei attraverso i suoi personaggi. O forse il piano è ancora più diabolico: portare Susan a ricordarsi del loro amore, a rendersi conto della fine del suo secondo matrimonio, a desiderare di nuovo il suo ex.

Difficile dirlo, dato che il romanzo si prende 400 pagine di tempo (del nostro tempo) e poi si rifiuta di dare una risposta sensata, anzi, non riesce nemmeno a porre una vera e propria domanda. Tutti quei quesiti stuzzicanti e ambigui uno se li aspetta perché Tom Ford invece i compiti a casa li ha fatti e, a differenza della fiacca produzione di The Girl on the Train, lavora a fondo sulle debolezze della sua fonte per tirarne fuori un film ambiguo e inquietante. Il suo approccio è ineccepibile e molto più coraggioso della media, in un periodo in cui la propensione al tradimento della fonte originale è ai minimi storici, nemmeno quando necessario e auspicabile. È la dittatura del fandom, bellezza.

Tom Ford però non se ne cura e trova innanzitutto la risposta che il romanzo non ha: perché Susan si sente minacciata dal suo ex? Da cosa deriva il suo senso di colpa nei confronti del primo marito? L’inesistente tensione che Austin Wright attribuisce a Susan nel romanzo è invece palpabile nel film e trova giustificazione in un climax che è una risposta, la più importante, una delle tante a latitare in Tony & Susan. Il senso di spaesamento mentre si legge non è quello di una storia ambigua condotta magistralmente per non lasciarci mai intravedere una verità univoca, quanto piuttosto quello generato da uno scrittore che promette ma non mantiene mai, anzi, non sa neppure bene quello che sta facendo.

L’unica colpa di Tom Ford, che dimostra invece a più riprese di conoscere le falle del materiale e di saperci mettere una toppa, è quella di aver scelto proprio questo irredimibile romanzo, di essersi ridotto a sartina di provincia che rattoppa le falle altrui, quando invece in A Single Man aveva sistemato con mano sicura un capo vintage di grande fascino.



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