Il gelo dell’inverno, sulla costa del Massachusetts, diventa uno specchio dell’anima, uno stato mentale. Kenneth Lonergan, al suo (soltanto!) terzo film da regista, esplora con rigore virtuosistico il dramma intimo di Lee Chandler (Casey Affleck), idraulico tuttofare che spala la neve davanti alle finestre del suo seminterrato e rompe la routine con improvvise, furiose risse da bar.

 

Manchester-by-the-Sea, il comune della contea di Essex che dà il titolo al film, è investito di luce pallida e azzurrastra (da premio la fotografia di Jody Lee Lipes, inspiegabilmente non candidata agli Oscar). Far diventare paesaggio e contesto pendant dei sentimenti è una strategia narrativa non nuova al cinema. Lonergan, però, non ne abusa. Anche, ma non solo, perché integra magistralmente strategia narrativa e indagine progressiva su un passato di tragedia, in cui il malessere esistenziale del suo protagonista affonda le radici.

È infatti solo quando viene a sapere che suo fratello è stato stroncato da un arresto cardiaco che Lee è costretto a svegliarsi dal torpore esistenziale. La cognata è sparita da un pezzo e formalità e incombenze sono a carico suo. Ma è la necessità di prendersi cura del nipote adolescente (Kyle Chandler) a costringerlo a togliersi di dosso la ruggine della solitudine: quando scopre di esserne stato nominato tutore, Lee deve fare i conti sia con le esigenze del ragazzo sia con la sua affettività anestetizzata, sepolta – in metafora – sotto la neve dell’inverno di Manchester-by-the-Sea.

 

Il passato riaffiora come un incubo, ma è tremendamente reale. Un lutto impossibile da elaborare, il peso della colpa. Lonergan lo dissotterra solo dopo aver lasciato chiaramente intendere che qualcosa, dentro il suo protagonista, si è rotto. E spartisce il materiale narrativo del film in due parti, separate da una lunga sequenza in flash-back di rara, vibrante potenza espressiva, che fa luce sulle origini di quel male di vivere che ha portato Lee Chandler a isolarsi, rifugiato in un monolocale male illuminato.

Niente melodramma. Intarsi di passato e presente si uniscono con precisione millimetrica. Non c’è enfasi ma autentica densità espressiva, anche grazie all’efficacissima scelta di accompagnare le sequenze cardine da estratti di musica barocca che includono Albinoni (il famoso Adagio) e Händel (toccante l’uso di He Shall Feed His Flock dal Messiah durante il funerale).

Inquadrature spesso fisse e pathos mai esibito, ma silenzioso e per questo ancora più potente: Manchester by the Sea può apparire plumbeo, inutilmente disperato. In realtà è proprio nel suo racconto a misura d’uomo che la pellicola sa toccare le corde più sensibili dell’emotività – perché regia e sceneggiatura non interferiscono con lo sguardo dei loro personaggi, non interpretano e non giudicano, ma sanno (ben) amplificare la portata di eventi che parlano da soli, che non hanno bisogno di commenti.

L’amore per un nipote ritrovato può decongelare la capacità di vivere e amare? Forse una speranza c’è, anche se la strada è in salita (fuori e dentro la metafora, nella scena finale).

Essenziale l’apporto degli interpreti, guidati da un Casey Affleck di impressionante, fremente misura. Lucas Hedges è una rivelazione di spontaneità, mai patetico. Michelle Williams, nei panni dell’ex-moglie di Lee, è magnifica: sono sue le lacrime che bagnano una delle sequenze più disperate ma liberatorie. Tutti e tre sono candidati all’Oscar, così come Lonergan sia per la regia che per la sceneggiatura e l’intera pellicola come miglior film.



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