Dopo la messa in onda della terza ed ultima stagione di The Leftovers, mi sono sentito in dovere di tornare a scrivere. Già avevo avuto modo di pubblicare qui una mia personale interpretazione del particolare mondo post-apocalittico frutto delle menti di Tom Perrotta e Damon Lindelof, ma la mia analisi si limitava alle prime due stagioni. Si trattava di un lavoro preliminare, propedeutico, ancora in buona parte valido, ma sicuramente incompleto e parziale. La terza stagione, a mio parere un capolavoro assoluto, ci fornisce i pezzi mancanti del puzzle, i più essenziali, in grado di confermare e, a tratti, correggere la mia prima (personalissima) interpretazione. Ciò che non cambia però è l’attenzione che ho cercato e cercherò di porre su un aspetto per me fondamentale: il valore metaforico della serie. The Leftovers ci deve apparire estraneo non più di quanto possa apparirci tale il nostro riflesso capovolto nello specchio. Detto ciò, la densità di questa stagione mi ha obbligato ad essere più puntuale e preciso nell’analisi, ma ci tengo a ribadire che su una serie del genere si potrebbero scrivere interi libri ed io non mi reputo capace di una tale impresa. Cominciamo.

Il diluvio

Una delle grandi conquiste del cristianesimo fu la concezione del tempo come linearità: istanti che si susseguono da un inizio ad una fine, dalla Creazione al Giudizio. Anche nell’ebraismo era in nuce questa tensione lineare, ma essa è sempre accompagnata da una più originaria concezione ciclica del tempo di cui è testimone la numerologia che riempie le pagine dell’Antico Testamento. Uno dei tanti numeri sacri è proprio il 7. Matt Jamison ci ricorda, infatti, di come il profeta Daniele predisse che la pazzia del re di Babilonia sarebbe durata sette anni, o di come il profeta Ezechiele disse che gli uomini avrebbero bruciato nel fuoco, ma solo per sette anni. Sembra quindi che il 7 sia il numero della chiusura di un ciclo; o detta in altri termini, ciò che è iniziato quel 14 ottobre si concluderà, in qualche modo, il 14 ottobre di sette anni dopo. È in questo modo che va affermandosi l’ipotesi del diluvio.

Ma perché il diluvio? Si pensi a tal proposito alla vicenda biblica di Noè e alla funzione insieme mortifera, purificatrice e di rinascita dell’acqua che sommerge tutte le cose (e non è un caso che proprio l’acqua svolga un ruolo fondamentale nelle morti e resurrezioni di Kevin). La numerologia però ha un valore metaforico e a tratti superstizioso. Essa è connessa al calcolo, ovvero ad una ragione sempre bisognosa di certezze, maniaca del controllo, ansiosa e pretenziosa. Bisogna però capire che non si tratta, qui, della classica dicotomia tra la fede e la scienza, l’irrazionale e il razionale: con Ragione si deve intendere il nostro più proprio modo d’essere e di pensare, l’arma dalle molteplici forme (anche quelle della superstizione e dell’irrazionalità appunto) di cui siamo forniti per far fronte alla nostra finitezza. Ma in fondo cos’è The Leftovers se non un promemoria della debolezza umana?

Sintesi perfetta di tutto ciò è la prima sequenza della prima puntata: focus su una donna, madre di famiglia, appartenente ad una piccola comunità messianica che vive nell’attesa di un diluvio salvifico. C’è un pastore-capo villaggio che si affanna nel calcolare con precisione la data della fine. Nella notte prestabilita, quindi, le famiglie in veglia salgono sui tetti e aspettano. Ma non succede nulla. Il pastore aggiusterà i calcoli e posticiperà la data più volte. Ma il risultato sarà sempre lo stesso, anche una notte temporalesca sarà seguita da una nuova mattina. La delusione nella donna che fa da protagonista della sequenza è la stessa delusione di Kevin senior, padre del nostro protagonista, ossessionato dall’idea del diluvio nel settimo anniversario, e che dopo la pioggia, seduto sul tetto e completamente svuotato, guarda il figlio e gli chiede: «And now?».

La condizione del “dopo la pioggia” è la condizione essenziale della postmodernità. L’umanità vive nell’eterno albeggiare di un sole che dirada le nubi e asciuga l’umidità evanescente e sempre transeunte lasciata da una pioggia inessenziale, che non sommerge. L’umanità vive nell’assenza di senso, nell’ostinazione di un calcolo inefficace, nell’incapacità di dare risposte, e non (si) aspetta più nulla. Se la pioggia non porta con sé la fine, se c’è un “dopo la pioggia” apparentemente sereno, se insomma non è successo nulla, la condizione che ci si sente addosso è quella della mera sopravvivenza, del vivere nella fine, ma mai la fine, quella condizione che Martin Heidegger emblematicamente definiva essere-per-la-morte. Infatti la fine c’è già stata quel 14 ottobre, ma non lo si accetta proprio perché non lo si comprende, non lo si afferra.

La famiglia

In più punti di questa terza stagione viene ribadito che la sofferenza che caratterizza la psiche umana post-apocalittica non è connessa a un semplice lutto da elaborare: la morte permette di sotterrare il proprio caro, la morte la si comprende, la si accetta, la si tocca, pur nella sua drammaticità; la dipartita invece non è elaborabile proprio perché in essa non è letteralmente successo nulla: «I miei figli non sono morti – urla Nora a Kevin – sono solo scomparsi». L’insistenza su questo punto ci permette di maturare un’ipotesi: e se i leftovers fossero a loro volta dipartiti? La condizione propria del leftovers, infatti, non è più quella di chi ha i piedi ben saldi a terra, ma è piuttosto un vivere sospesi a mezz’aria, con un nodo in gola, senza più parole, in un totale spossessamento di sé, sempre altrove.
Non va sottovalutata, a tal proposito, la difficile, faticosa, vicenda familiare di Kevin e Nora. Il matrimonio in una simile epoca risulta fuori luogo, se non impossibile. Esso prelude alla formazione di un nucleo familiare costituito da due individui che, nel donarsi interamente all’altro, restano comunque se stessi. Se la singolarità è dispersa, se l’individualità post-apocalittica è frammentata, la commistione, l’unità, non è mai possibile, proprio perché lì dove dovrebbe esserci una pur debole solidità c’è solo fluidità. Non bisogna fraintendere però: non si tratta di una esaltazione del solipsismo, dell’individualismo, ma di una critica feroce ad esso. Del resto, dal canto suo, il matrimonio è una scelta che presuppone una individualità forte, e questa ormai non esiste più.

Ad inizio stagione il governo americano lancia un drone esplosivo contro l’ultima roccaforte organizzata dei Guilty Remnants. Nelle prime due stagioni la lotta feroce di Kevin contro la setta dei vestiti di bianco ci aveva portato ad individuare in quest’ultima l’elemento negativo, l’antagonista, il nemico da abbattere. E anche io nel precedente articolo ero caduto nel tranello esaltando la battaglia di Kevin Garvey contro tali fanatici, baluardo – pensavo – del più infimo individualismo. In questa terza stagione però, dove i Guilty Remnants, per come li abbiamo conosciuti, sono pressoché scomparsi, matura prepotentemente una nuova consapevolezza, già in nuce nelle precedenti stagioni, ma che forse rifiutavo di notare: dopo il 14 ottobre, dopo la “fine della storia”, è impossibile non essere un colpevole sopravvissuto. Allora l’individualismo contemporaneo assume contorni diversi, perfettamente tracciati nella settima puntata: Kevin è se stesso e il suo gemello identico. Quello che possiamo definire post-individualismo è esattamente questo: la latente (nascosta nelle superfici riflettenti) dialettica tra l’ipertrofismo individualista tout court e la vuotezza, la fumosità interiore, l’essere sempre altrove, tutte caratteristiche per l’appunto proprie dei Guilty Remnants.

Kevin vestito di nero e senza barba è un assassino, ha sempre un nemico da abbattere, e in ciò riesce a conferire senso alla propria esistenza. Egli è l’uomo più potente del mondo, certo di sé, delle proprie battaglie, della propria stabilità, il Sé ipertrofico appunto. Dall’altro lato dello specchio c’è Kevin vestito di bianco e con la barba che tiene un intervento – appunto – contro la famiglia, di fronte ad una esultante umanità “guilty remnant”, in qualità di presidente degli Stati Uniti, il che lo rende ancora l’uomo più potente del mondo ma con riserva, non con pienezza di sé. È reticente infatti di fronte alla missione assegnatagli dall’elettorato, quella dell’annientamento di tutta l’umanità, e solo una figura carismatica come Patti Levin, da lui nominata segretario alla difesa, poteva persuaderlo della necessità della causa: solo scatenando una guerra nucleare totale, all’indomani del settimo anniversario della dipartita, ossia quando la “pioggia” sarà cessata, «nessuno si sveglierà e sarà deluso perché non è successo un cazzo. Daremo – dice Patti – alla gente quello che non ha il coraggio di fa-re perché si caga sotto, daremo loro ciò che vogliono, e loro vogliono morire».
Non si deve avvertire in queste parole solo l’eco della classica concezione della morte come cessazione di ogni sofferenza. Qui – e non è un elemento da sottovalutare – a morire sono i già morti. C’è un significato metaforico che va oltre, cioè, la semplice componente patico-psicologica. L’annientamento è l’unico desiderio possibile: se l’identità è disciolta, come potremmo desiderare di essere effettivamente qualcosa? Si resta come gusci ricolmi di non-essere. E cos’è Kevin se non esattamente questo? L’ultima pagina del suo libro lo dipinge come un uomo codardo, mascherato da poliziotto o da assassino o da uomo più potente del mondo ma terrorizzato dalla possibilità di trovare consolazione, e cioè dall’impossibilità di ritrovare se stesso. Quest’uomo, così diviso, se ne va sulla sua barca, in balìa delle onde, è solo e tutto va bene. Il solipsismo è l’unica risposta possibile, ma il suo essere di facciata, la sua funzione di maschera è ormai disvelata e rischia di frantumarsi al più debole soffio di vento. Kevin quindi si decide al non-essere, alla mortalità, non è più attaccato alla vita tanto da essere sicuro di risorgere dopo ogni morte. E la “chiave” della mortalità, la scoperta definitiva della sua debolezza strutturale, sta proprio nel pacemaker che trova nel cuore del suo gemello ipertrofico.

La fede

Se Kevin scopre la sua debolezza attraverso il Libro della sua vita scritto a quattro mani con se stesso, l’esaltazione del Kevin forte, del gemello che risorge, è consegnata ad un altro Libro, un vero e proprio Vangelo in cui il reverendo Matt Jamison descrive il nostro protagonista dalle capacità straordinarie come il Messia. Nell’Apocalisse, ultimo libro della Bibbia, Giovanni predice la seconda venuta di Cristo come atto conclusivo del Giudizio universale, ossia la salvezza del mondo intero. E l’ottimismo di Matt riconosce nelle resurrezioni di Kevin il meccanismo cristologico della seconda venuta. Questo va collegato ad un dato di fatto: le virtù paoline, l’amore, la speranza e la fede, resistono al di là di ogni evento, inscalfibili punti fermi in un universo allo stato gassoso. La fede è percepita come unica via d’uscita, ultimo baluardo difensivo dell’umanità. Nella fede, del resto, non c’è nient’altro che decisione risoluta, non c’è nient’altro che il decidersi ad un’azione, fatto per nulla scontato nel mondo di The Leftovers. John, per esempio, è ben consapevole che la teoria del diluvio di Kevin senior è falsa, ma rifiutare quella storia lo costringerebbe a rifiutare anche la sua, mentre lui deve credere. Sul versante diametralmente opposto, anche Nora, alle prese con un paradosso inestricabile (prendersi la responsabilità diretta dell’uccisione di un bimbo perché il suo gemello possa scoprire la cura per il cancro, oppure prendersi, anche se indirettamente, la responsabilità per non aver creato i presupposti necessari a una tale scoperta?), viene dalle due scienziate testata proprio nella sua fede, nel decidersi ad agire al di là di ogni dubbio.

Ma Lindelof non è mai sazio, e la sua falce non risparmia neanche il potentissimo dispositivo fideistico. Nella quinta puntata Michael, John, Laurie e Matt sono in viaggio verso Melbourne alla ricerca di Kevin. Su quella “nave della perdizione” che offre loro un passaggio, Matt incontra uno strano individuo, tale David Burton, ex presentatore delle Olimpiadi di Sidney con una storia molto, troppo, simile a quella di Kevin: precipitato da 100 metri d’altezza durante una scalata, muore…e poi risorge. Da quel giorno si fa chiamare Dio. La fermezza del suo sguardo e la sicurezza delle sue risposte gli conferiscono un’aura particolare e lo spettatore inizia quasi a credere alla sua versione. E che a fine puntata sia divorato da un leone, al di là di qualsiasi significato metaforico, non risolve del tutto la questione, e lascia quel barlume di dubbio (chi ci dice che non risorgerà anche questa volta?). Matt viene a conoscenza della sua storia e mal sopporta il fatto che un uomo si faccia chiamare Dio. Non ho tempo di affrontare di petto il labirinto teologico costituito da ogni singolo frammento di questa puntata. Mi limiterò a commentare l’ultimo dialogo tra Matt e Burton. Innanzitutto, il prete lega Dio: l’unico modo per parlarci, per porgli domande e richieste è legarlo; detta altrimenti, legare Dio è l’unico modo che abbiamo per credere che ci ascolti. Legare Dio significa costringerlo all’interno delle nostre logiche: «Se sei Dio perché non ti sleghi?», dice Matt (citando, senza volerlo, Satana nel celebre passo evangelico in cui tenta Gesù), «Perché – risponde Burton – dopo mi slegherai tu stesso, quando avrai ottenuto ciò che vuoi» «E cos’è che vorrei?» «La mia attenzione» «Già ce l’ho» «No, non ancora». La fede esce dalla porta dell’Io sicuro di sé ormai sgretolato ma rientra dalla finestra dell’antropocentrismo camuffato: amare Dio non legittima la pretesa di riceverne amore, e la fede sarebbe solo un raffinato capriccio.

Matt gli chiede se ammette di aver buttato un uomo in mare, Burton non fatica ad ammetterlo. Allora, osserva Matt, lo confesserà senza problemi anche davanti alle autorità, ma Burton/Dio gli ricorda che è lui l’Autorità. Matt sposta quindi l’asse del discorso sul biglietto da visita e osserva che non si fa menzione di Gesù. Ma Burton gli risponde che non era suo figlio («la parola di Maria contro la mia») e che la gente lo pensò risorto quando vide quello che era semplicemente suo fratello gemello (è chiaro qui il parallelismo con la vicenda di Kevin). Matt non può accettare un Dio così indifferente e per questo gli chiede di cosa si prende la responsabilità. La malattia, la povertà, le ingiustizie, il dolore? Niente di tutto ciò. L’unico evento in cui vi sarebbe, secondo la versione di David Burton, lo zampino di Dio è la Sudden Departure. Il reverendo Matt Jamison – che pare iniziare a piegarsi alla versione di quell’uomo che dice di essere Dio, ha un’occasione senza precedenti: chiedere a Dio il perché. Cartesio prima Spinoza poi hanno fondato il loro pensiero moderno sullo smussamento dell’antropocentrismo basato sulla possibilità di comprendere i perché di Dio. Di fronte ad una sì empia pretesa essi affermano un principio semplicissimo ma esplosivo: l’infinità di Dio, la sua assoluta non-comprensibilità-razionale, la sua onnipotenza, superiore rispetto a qualsiasi verità logico-matematica e a qualsiasi legge di natura. Burton/Dio può quindi rispondere alla richiesta “umana” di un motivo che spieghi il 14 ottobre nella maniera più annichilente, con una risposta non solo spiazzante ma quasi fastidiosa, inaccettabile: «Because I could».

Ma l’uomo non riesce ad abbandonare i suoi schemi: Matt non può concepire l’assenza di un motivo: egli stesso ha sacrificato tutta la sua vita e la sua felicità a quel motivo che è Dio. Burton però gli fa capire che il senso di ciò che ha fatto non risiede in Dio ma, appunto, in se stesso: «Hai fatto tutto questo perché pensavi che ti stessi guardando o giudicando, ma non era così e non lo è neanche ora: non hai mai fatto nulla per me, l’hai fatto per te stesso» «È per questo – chiede Matt – che mi stai uccidendo? Da piccolo ero malato, ti ho pregato e tu mi hai salvato. Perché sono nuovamente malato?» «Posso salvarti ancora», risponde Dio, «No, non puoi», risponde Matt slegandolo: non si tratta di predicare di Dio una impossibilità ma semplicemente di non costringerne la trascendenza entro i nostri limiti. Il Dio funzionale di Matt non esiste, la fede è un’arma potentissima ma non è la soluzione. Anche il reverendo Matt Jamison, insomma, si rende finalmente conto di essere un colpevole sopravvissuto e, come dice a Nora, ha sì paura di morire e non crescere suo figlio, ma ha soprattutto paura di sopravvivere, sopravvivere senza le risposte che credeva di avere.

Here

Nora Durst è la donna più coraggiosa del mondo. Mentre Kevin con la sua forza è l’uomo pieno di sé, Nora col suo coraggio guarda il problema dal versante opposto: è determinata, risoluta, e non nasconde la sua sofferenza, semmai la esalta, la rende parte di sé, e Kevin la lascia proprio perché ogni sua scelta è sempre da ricollocare in questo orizzonte di sofferenza. Questa è infatti diventata il suo scudo, quasi l’unica ragione della sua esistenza, sicuramente delle sue decisioni. È per questo che con sicurezza pedina le scienziate: Nora vuole solo che la spediscano di là, nel Sottosopra direbbero i ragazzi di Stranger Things, lì dove sono andati i dipartiti, quindi i suoi figli. La vediamo affrontare lo strano macchinario che fa sparire la gente e la ritroviamo molti anni dopo, invecchiata, ad allevare piccioni (perché questi ritornano sempre) in qualche sperduta landa australiana. Qui viene raggiunta da un Kevin ormai vecchio e cardiopatico, che la ritrova dopo anni di ricerche estenuanti. Dopo una fase di rifiuto, Nora decide di raccontare a Kevin ciò che ha fatto: è stata di là, in quel mondo parallelo quasi disabitato, dove i dipartiti erano stati tutti loro, non il 2% ma il 98% della popolazione mondiale, dove una donna ha perso suo marito, le sue tre figlie e tutti e otto i suoi nipoti, e dove i suoi figli, ormai adolescenti e cresciuti col padre e la sua nuova compagna, erano lì quelli fortunati. Nora capisce che non era quello il suo posto (tanto da decidere di tornare indietro), comprende cioè l’universalità di quella stessa condizione (quella del leftover) che sfruttava in senso identitario.

Ora, perché dovremmo credere alla storia di Nora? Sembra effettivamente irreale questo viaggio di andata e ritorno in paradiso, e per quel che ne sappiamo il macchinario può essere anche solo un disintegratore. Nell’ultimo istante della sequenza inoltre, prima che la narrazione si sposti in avanti di qualche decennio, Nora con l’acqua fino al mento sgrana gli occhi e sembra che stia per urlare qualcosa. Non voglio insinuare dubbi e non mi sento di affermare con sicurezza che abbia urlato «Stop!», ma vorrei solo far notare che non cambierebbe nulla. Nora può benissimo aver maturato in anni di isolamento o anche semplicemente in quell’istante una consapevolezza del genere. Ma – ripeto la domanda – perché dovremmo crederle? Perché in un libro ciò che conta davvero è l’ultima pagina, ciò che dice il finale. Il viaggio non compone frasi di senso, la penna si impugna solo al ritorno, e la possibilità di arrivare all’ultima pagina, la possibilità stessa di un libro, apre uno spiraglio di luce nel tragico universo di The Leftovers. L’ultima pagina è la pagina del punto fermo, la pagina della residualità ultima del soggetto umano: al di là della crisi dell’individualismo, al di là cioè di una identità fluttuante, spostata, disciolta, sospesa, quella che non è mai nulla concretamente e riesce ad essere paradossalmente solo nel non-essere della morte, prima di tutto ciò c’è il dato di fatto dell’essere qui. Heidegger parla dell’Esserci come unica condizione autentica dell’essere umano.Damon Lindelof

manda quindi un messaggio profondissimo: tra l’individuo e la morte c’è qualcosa, c’è la possibilità di un ritorno, dopo lo svuotamento di ogni definizione, di ogni certezza, di ogni stampella metafisica, ciò che conta è esserci, è l’essere “Here”, e tanto basta.



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