Francesco Guarnaccia è un ragazzone di 24 anni, ha un gran ciuffo biondo, lo sguardo un po’ impacciato di chi sa essere subito simpatico e un gran talento per il fumetto. Nonostante l’età, negli ultimi anni si è già fatto notare per i suoi lavori, principalmente nel contesto del collettivo Mammaiuto, ricevendo anche una menzione a Lucca 2015 durante l’assegnazione dei premi Gran Guinigi. Una serie di traguardi niente male che gli sono valsi le attenzioni di Bao Paublishing, per cui ha pubblicato poche settimane fa il suo primo volume, Iperurania. Ah, è anche pisano a dirla tutta, ma in fondo nessuno è perfetto.

Eppure dopo una manciata di pagine del suo fumetto ho rischiato di farmi un’idea parecchio sbagliata di Francesco Guarnaccia. Ok, non è del tutto vero. Prima di iniziare a leggere Iperurania ho assistito alla presentazione del volume a Milano – l’ho anche trasmessa nelle stories sul nostro account Instagram, motivo in più per seguirci se non lo fate – e ho letto la piacevole e interessante intervista su Plutocratica Sicumera. Perciò sono arrivato pronto alla lettura, con un’idea dell’autore e dell’opera quanto meno abbozzata.

Senza queste premesse tuttavia non so come avrei reagito realizzando dopo qualche decina di pagine che Iperurania parla della sindrome dell’impostore, ovvero quella condizione psicologica che generalmente colpisce le persone di successo con la convinzione di non meritare quanto ottenuto fino a quel momento. Un filo azzardato per uno al primo volume sugli scaffali delle librerie.

Basta qualche pagina in più ad ogni modo per scrollarsi di dosso questa sensazione e prendere confidenza con la capacità di Guarnaccia di universalizzare un’esperienza in teoria così elitaria. Il suo protagonista, Bun Hobbes, non è un genio che si sminuisce per calamitare l’approvazione altrui, ma un ragazzo normalissimo a cui capita un cosa strana, molto strana, che in fondo gli riserva persino dei risvolti positivi, ma che nell’immediato gli complica enormemente la vita e che dunque non sa gestire.

Bun è uno shooting star, ovvero un fotografo spaziale di quell’anomalia cosmica chiamata Iperurania, il pianeta che non può essere esplorato. La forza gravitazionale di Iperurania è tale da non consentire a nessuna navaicella per quanto potente, e tanto meno a un umano, di abbandonare la sua atmosfera dopo esservi entrato. Dopo anni di tentativi di studio miseramente falliti per l’impossibilità giungervi a contatto, Iperurania è diventato oggetto di esplorazione artistica. Gli shooting star si lanciano in picchiata verso l’oggetto del mistero sfidando le leggi fisiche e la sorte per avvicinarsi quanto più possibile al punto di non ritorno. Solo i più abili riescono a lambire l’atmosfera e rubare scatti ravvicinati della superficie. Bun di colpo è uno di loro. Beh, non proprio a dire a vero, ma non vi rovino il piacere della lettura: basti sapere che in pochi sono in grado di scattare foto più ravvicinate di quelle di Bun.

L’abilità migliore del Guarnaccia narratore è quella di universalizzare temi ad un primo sguardo molto specifici. Nella sindrome dell’impostore di Bun, condizione che definirei elitaria e che lo stesso Guarnaccia ammette di aver solo sfiorato nella sua esperienza personale, si può leggere un certo tipo di disagio molto più diffuso e comune. Quello di chi ancora non ha deciso cosa fare della propria vita, quello di chi ha un peso dentro che non vuole o non riesce a tirare fuori e gli complica il rapporto con gli altri, o anche solo quello di chi ancora non è riuscito a decidere tra amicizia o amore o entrambi.

Il Bun di Guarnaccia si isola dagli amici, si convince di non valere niente, si vergogna di ciò che ha fatto e di ciò che è, si sente un peso per il prossimo e piano piano molla tutto, svuotato di ogni stimolo, fino a rassegnarsi a sparire, letteralmente. Ricorda tanto una sindrome molto più comune di quella dell’impostore.

Allo stesso modo, la stazione spaziale, nata per ospitare gli studiosi di Iperurania e divenuta nel tempo base per studenti dell’Accademia che mira a risolvere il mistero del pianeta, nonchè punto di raccolta delle shooting star, funge da location fantascientifica la cui dimensione tuttavia è quella di una cittadina, poco più grande di un paesello di cui ricalca le medesime dinamiche. Un setting fantascientifico a misura d’uomo, che si presta a raccontare le avventure di un ragazzo che vola nello spazio e farne metafora di problematiche molto più terrestri.

In Iperurania, insomma, Guarnaccia disegna una cosa per dirne un’altra, ma la formula alchemica è ben dosata  e i diversi significati riescono a convivere invece di sovrapporsi. Il percorso di Bun funziona sia come novella fantascientifica che come racconto provincia e il segreto sta in tutti quei meccanismi narrativi abilmente camuffati tra le pieghe della storia. Come gli incisi dedicati a Tenna e Laura, inserti comici che servono a scandire la progressione della racconto inserendo nel contesto elementi all’apparenza marginali, destinati però quasi sempre a ricoprire un ruolo più importante solo qualche decina di pagine più in là.

La stessa sintesi si ritrova sul versante grafico. Il tratto di Guarnaccia è rapido e deciso, debitore nei confronti del O’Malley di Scott Pilgrim e dello stile dei furono-Superamici o delle produzioni animate di Cartoon Network come esplicitamente dichiarato dall’autore stesso, da Adventure Time a Spongebob, ma anche verso il manga, suggestione forse inconsapevole che esplode soprattutto nelle gag più grottesche o non-sense.

Pur mediando tra diverse fonti, per quanto tra loro affini, il risultato grafico sulla pagina riesce comunque a mostrare una propria personalità soprattutto nell’espressività dei personaggi, mai piegati a un qualche tipo di esigenza di coolness nella loro caratterizzazione. Quel che salta subito all’occhio è l’uso del colore, sempre realizzato in prima persona da Guarnaccia, interamente in digitale. È l’elemento che conferisce a tutta la storia il suo aspetto alieno, in un trionfo di arancioni, fucsia, viola e azzurro che caratterizza il paesaggio di Iperurania, forse un po’ troppo generico tra rocce e vegetali filiformi, o forse volontariamente stilizzato per prestarsi meglio al suo ruolo di metafora.

Al termine del viaggio, dopo il sacrificio di Bun e un finale che non presta il fianco a una morale consolatoria, ma accetta il dolce e l’amaro della situazione in cui il protagonista si è cacciato, non c’è traccia dell’arroganza o della superbia paventata all’inizio, dopo aver scoperto cosa al centro di Iperurania: solo rassicuranti segnali di un nuovo talento per il fumetto italiano.

 

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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