Grazie al successo internazionale di Un sapore di ruggine e ossa e la Palma d’oro vinta con Dheepan, il francese Jacques Audiard strizza l’occhio a Hollywood cimentandosi con il cinema di genere: opta per una rilettura del western, il filone che forse più di ogni altro appartiene all’America e alla sua storia. Anche se, a fasi alterne, gli USA hanno mostrato amore e odio per le epopee in salsa cowboy rilette in anni più recenti, quando lo spirito critico di fine secolo ha sostituito lo spessore da mandriano di John Wayne.

Audiard mette le mani avanti e piazza in cartellone due star come Joaquin Phoenix e Jake Gyllenhaal e un caratterista abbastanza noto al grande pubblico come John C. Reilly.

Eppure The Sisters Brothers dell’epica se ne infischia. La storia è quella dei fratelli Sisters (Phoenix e Reilly), sicari mercenari sulle tracce di un chimico che pare avere in tasca un metodo alternativo per trovare l’oro. La caccia e’ coadiuvata da un investigatore privato (Gyllenhaal), ma presto prenderà una piega inaspettata.

Audiard tratta la materia con distacco europeo. L’afflato patriottico del vero western oggi suonerebbe anacronistico, forse. Ma qui siamo lontani anche dal rovesciamento di prospettiva che quasi trent’anni fa metteva in scena Balla coi lupi.

Il film e’ spesso sarcastico. Ma e’ un sarcasmo che stride e gracchia invece di graffiare. E l’esperimento di rileggere il genere che era riuscito (pur non senza sbavature) ai Coen con Il Grinta qui sbiadisce e si annacqua in uno sviluppo narrativo che spesso perde di vista l’eleganza, anche estetica.

The Sisters Brothers ha tutto, sulla carta. Audiard e’ in totale comando degli aspetti tecnici e stilistici. Al suo viaggio nel West non manca lo sguardo contemplativo sulla natura, ben resa nei colori del direttore della fotografia Benoît Debie.

Ma la rappresentazione della violenza e’ a tratti grossolana, ad alcune scene mancano completamente gusto e aplomb, e la materia finisce spesso strapazzata da una regia sovreccitata, incapace di tenere salde le redini del plot.
Donne ridotte ai margini, della storia e della società, un po’ come alcuni vecchi western volevano: figure contemplative, inessenziali al racconto filmico. C’e’ da chiedersi se nessuno storcerà il naso proprio oggi, nel post Weinstein-gate fra MeToo e Time’s Up. Nel cast dominato da uomini, solo Joaquin Phoenix riesce davvero a non stonare nelle corde di un’interpretazione venata di folle malinconia.
L’analisi di Audiard e la sua riflessione sulla materia suonano troppo cervellotiche: il regista si diverte a giocare con il suo film citando e facendo a pezzi le sue citazioni, ma senza rendersi conto di quanto le sue sovrastrutture prevarichino sull’entertainment, sacrificando l’amore per il racconto di una storia sull’altare di una fredda sperimentazione stilistica.


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