Ideata da Tim Miller – curatore di effetti speciali ben prima che regista – e prodotta da David Fincher, Love Death & Robots è una serie animata antologica, dedicata ad un pubblico adulto, rilasciata recentemente sulla piattaforma Netflix. L’operazione, composta da diciotto cortometraggi, si presenta come una serie di variazioni sul tema fantascientifico toccando un po’ tutte le questioni care al genere: la paura dell’ignoto, l’incontro/scontro tra alterità, il superamento del corpo biologico e l’instabilità dei principi fisici legati allo spaziotempo, restando però contraddistinta da un allure “superficiale” e una sommaria mancanza di intenti e narrazione.

Sul piano dei contenuti, infatti, Love Death & Robots sembra non aver molto da aggiungere alla vasta letteratura esistente – e non pare nemmeno volerlo fare – mentre è sicuramente più interessata a esplicitare, attraverso un genere che offre numerose possibilità rappresentative, lo stato dell’arte dell’animazione (digitale e analogico-digitalizzata) senza vincoli di coinvolgimento narrativo, unità discorsiva e target di riferimento. Perciò, al di là della ricorrenza di certi temi e dell’inclusione a più riprese – in virtù del clima attuale – del ruolo della donna in situazioni e società distopiche, non sembra esserci un impiego del genere fantascientifico che ne giustifichi il ricorso, non in termini argomentativi almeno. Quello che, invece, appare piuttosto evidente è il desiderio di testare “nuove” forme e metterle a confronto in un ideale incontro tra ideatori e fruitori, alla stregua di una fiera virtuale. Se questo possa effettivamente rappresentare un intrattenimento efficace e adeguato alla piattaforma streaming lo diranno gli spettatori, per quanto ci riguarda ci limiteremo a rilevare gli spunti di riflessione.

Il primo è che, sotto il profilo estetico e rispetto alla varietà tecnica, Love Death & Robot propone ben poche novità. Se è vero che alcuni episodi si distinguono per il progresso tecnologico e per la qualità e l’eclettismo della computer grafica tra elaborazioni in CGI e ricorso alla Motion Capture e al Rotoscoping – su tutti The Witness, Beyond the Aquila Rift e Secret War – numerosi episodi sembrano più che altro adagiarsi sugli allori dell’operazione, alcuni sopperendo al virtuosismo estetico inscenando microstorie dall’innegabile fascino tecno-filosofico (Good Hunting), altri restando piuttosto sterili (Sucker of Souls).

La verità è che, in Love Death & Robots, un tema portante c’è, ed è la ciclicità. Il ciclo appare, a seconda dell’episodio, come simbolo visivo – oggetti, luoghi o personaggi che non sono (solo) quello che sembrano – (Blind Spot, Sonnie’s Edge, Sucker of Souls, Lucky 13, The Dump); come costrutto metaforico – allegorie più o meno codificate sulla sopravvivenza a se stessi – (Fish Night, Suits, Shape-Shifters, Secret War, Helping Hand, Three Robots); come evoluzione narrativa – storie che cambiano per rimanere le stesse – (When The Yogurt Took Over, Ice Age, Good Hunting, Zima Blue); come struttura compositiva – situazioni chiuse senza possibilità di evoluzione – (Beyond the Aquila Rift, Alternate Histories, The Witness).

Il ciclo avvia e non conclude, annuncia e rinuncia, denuncia e non risolve, piuttosto si autofagocita. È un po’ come la nostra epoca incerta e infruttuosa: gira a vuoto. E forse, in questo senso, il ciclo è IL tema fantascientifico dei nostri tempi. Dove stiamo andando? Da nessuna parte, probabilmente all’inizio. Sarà da rintracciare in questa celebrazione del loop esistenziale la singolare scelta della piattaforma di rilasciare gli episodi in un ordine casuale, uno diverso per ogni utente…?



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