Entro a gamba tesa come Trucebaldazzi in Vendetta Vera e parto da subito con un “fateci caso”.
Fateci caso, nel cinema degli anni ‘90 l’unica cosa che ha senso culturale è la figura dell’antieroe. Fight Club, Trainspotting, American Beauty, I Soliti Sospetti, Gattaca, Il Corvo, American History X, (mica pizza e fichi, eh?) sono film zeppi di personaggi moralmente ambigui, buoni che non sono per niente buoni, ma nemmeno poi tanto cattivi. Peccatori, insomma. Uomini e donne imperfetti che cercano solo di essere felici. Proprio come te e me.

Fatto caso?

Mentre ci pensate, potrei dedicare un mezzo trafiletto agli Aqua, al Burghy e alla brutta fine che ha fatto Mauro Serio, ma non mi dilungherò sugli anni ‘90. Basti dire che si sono conclusi moralmente (non temporalmente) l’11 settembre del 2001, quando un sipario nero è calato sul nostro ottimismo e in tutti i televisori del mondo è comparso il Diavolo: Bin Laden. Ogni settimana veniva vagheggiato un nuovo attentato. Quotidianamente veniva posticipata la Terza Guerra Mondiale. I politici allora ci hanno promesso protezione, una maggiore chiarezza ideologica e una divisione inequivocabile tra buoni e cattivi. Poi è toccato al cinema rassicurarci, livellando trame e personaggi per eliminare ogni possibile doppiezza morale con film tipo Il Signore degli Anelli, Gli Incredibili e il primo Spider-Man.

Come un trucco di magia, gli antieroi sono scomparsi.

E con loro anche Mauro Serio. Ma vabbè, quella è stata solo una coincidenza pazzesca.

Palahniuk, che con la moralità equivoca ci pagava le bollette, è stato costretto a scrivere libri mediocri, ma utilissimi se per caso avete una pescheria e vi serve qualcosa con cui incartare le orate e i tranci di salmone. Nel frattempo Harry Potter diventava il manifesto della generazione nascente.

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Siamo andati avanti così, procedendo per inerzia e senza farci domande, fino alla recessione del 2008, quando la faccenda s’è fatta bizzarra. Lo scoppio della bolla immobiliare e la susseguente crisi finanziaria mondiale ci hanno svegliati a sberle e, mentre i TG dicevano tutto e il contrario di tutto, abbiamo capito che non ci sarebbe stato più lavoro per i laureati in Orchestra Sperimentale e che i nostri stipendi sarebbero stati pagati in cotton-fioc usati. Il Male, perennemente in conflitto con tutti, un antagonismo sterile e infantile e autodistruttivo, non era più identificabile nei kamikaze afghani, ma era da ricercare in quegli uomini che la mattina indossano abiti Zegna e fanno nodi Windsor a cravatte Van Heusen per andare in ufficio a giocare con i numeri su tabulati Excel. I banchieri.

E nel pieno di questa rinnovata moria di fame, i politici (gli hooligan del Male) hanno dimostrato di essere i veri terroristi dell’economia, incapaci di amministrare il potere senza andare a trans con i soldi delle nostre pensioni.

Ci avevano fregati.

Ma d’altra parte l’accesso alle posizioni di potere a noi era precluso in partenza e quindi, umiliati e impotenti, abbiamo riesumato gli antieroi e li abbiamo messi al centro delle serie tv che guardiamo, dei romanzi che leggiamo e dei sogni di rivalsa che custodiamo, interrogandoci su cosa sia la meritocrazia e se abbia ancora senso parlarne. Perché se il potere non è una conseguenza del lavoro onesto e non può essere ottenuto in maniera lecita, in che modo lo si otterrà? La risposta, da sempre e per sempre, è la solita: nello stesso modo in cui l’ha ottenuto l’elite al comando, ovvero, soffocando con fragorosi peti legalità e decenza per manipolare il sistema in maniera diretta.

E qui ci sta bene un altro “fateci caso”.

Fateci caso, tutte le nuove serie tv di maggior successo (Breaking Bad, Game of Thrones, House of Cards…) sono cucite attorno a personaggi dalla moralità in caduta libera costretti ad affrontare il binomio potere/meritocrazia.

BAM. Vi ho spiegato come va il mondo.

Ora c’infilo dentro Rectify e chi capisce capisce e gli altri niente, amici come prima e ognuno per la sua strada.

Rectify è una serie tv il cui protagonista, tale Daniel Holden (Aden Young), viene rilasciato di prigione dopo diciannove anni nel braccio della morte, alla luce di nuovi dettagli relativi allo stupro e all’assassinio della sua fidanzatina sedicenne di un tempo. Così è come comincia. Come continua è che l’uomo fa ritorno alla sua città natale Paulie, in Georgia, dove tenterà di adattarsi alla sua nuova vita.

Funziona come premessa? Vi acchiappa? State ancora leggendo? Non vi vedo molto convinti.

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Messa così la tavola sembra apparecchiata per un polpettone di proporzioni ciclopiche, e Rectify un po’ lo è. Ma è un polpettone con almeno tre perché.

Primo perché: Ray McKinnon, autore della serie, aveva inizialmente pensato a Rectify come a un film. E questa è un po’ una cosa che – vuoi per la complessità dei personaggi, vuoi per l’utilizzo delle lenti Leica, vuoi per il ritmo narrativo ipnotico stile haiku – si sgama subito. Cosa vuol dire? Vuol dire che è l’evoluzione dello sforzo iniziato dalla HBO e proseguito dalla AMC di colmare il vuoto tra le produzioni televisive e i grandi blockbuster di Hollywood.

Secondo perché: non è CSI. Mi spiego, la trama viene innescata da un omicidio, d’accordo, ma Daniel può essere tanto innocente quanto colpevole e a Rectify ‘gnenefregagnente. Colpevole? Non colpevole? Ormai il danno è fatto. L’unica via d’uscita è andare avanti e chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdàmmoce ‘o ppassato, simmo ‘e Paulie in Georgia paisà.

Certo, la presunta colpevolezza di Daniel è un nodo importante da sciogliere per sua sorella Amantha (Abigail Spencer), per la madre Janet (J. Smith-Cameron), per lo sceriffo Carl Daggett (J.D. Evermore) e per una lunga lista di comprimari che si appellano a motivi più o meno validi per incendiare forconi e inneggiare al rogo. Ma nell’economia di questa brutta faccenda ciò che conta davvero è la presenza ingombrante di Daniel in un mondo a lui sconosciuto. La domanda infatti non è come un uomo cattivo riesca farla franca dopo essere sfuggito a una giusta punizione, né come riesca un uomo buono possa tirare avanti dopo due decadi di punizioni ingiuste. Qui si cerca di capire piuttosto se sia possibile per un uomo (che, in quanto tale, è buono e cattivo al tempo stesso) inserirsi in un mondo che l’ha brutalmente escluso per diciannove anni, giustamente o meno. C’è poi anche da capire come si comporteranno le persone attorno a lui. Tutto sommato questa è una cittadina di americani dalle camicie di flanella e gli stivali zozzi di fango ai quali viene chiesto uno sforzo impossibile: una ragazza è morta e loro devono tollerare la presenza del presunto assassino all’interno della loro comunità. Chi più chi meno, sono tutti dalla parte del torto o della ragione e sta a te scegliere con chi simpatizzare.

Terzo perché: è un inno all’antieroe puro e duro, quello che sarebbe rimasto confinato (incarcerato) negli anni ‘90 se le cose fossero andate diversamente nel 2008. Un antieroe modesto, ma non modesto nel senso di banale. Modesto nel senso di “non cucina metanfetamine in un camper nel New Mexico, non è un detective ossessionato dal demone Pazuzu, no, sta solo cercando di essere felice”.

Proprio come me e te.

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Fin dall’inizio il medium del cinema si è basato sulle percezioni di massa ed è stato sempre utilizzato o per educare o per fare propaganda. I film migliori sono quelli in cui questi livelli di significato sono ben nascosti. In questo modo, gli spettatori credono semplicemente che il film serva solo all’intrattenimento o al piacere estetico. Troppo spesso, però, il cinema sembra indurre una trance collettiva e quasi mai rappresenta un risveglio sociale – che di solito comporta la presenza di un condottiero, un catalizzatore che converta e unisca la massa. Con Rectify la situazione si fa complessa e stratificata, ma vi ritengo intelligenti abbastanza da capire da soli il ruolo e la collocazione, tutt’altro che casuali, di alcune serie tv nella cultura popolare.

Per il resto, potrei concludere aggiungendo che non c’è una performance che deluda in Rectify, ma vi interessa davvero che lo scriva? Cercate di capire, si tratta di attori veri. Mica di Mauro Serio.



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Flavio De Feo

Vive a Roma, dove lavora in qualità di traduttore e interprete. Scrive di musica e film in giro per il web e collabora occasionalmente con alcune testate cartacee. Ha anche un blog: achepianova.tumblr.com.

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