Ghost in the Shell è indubbiamente una delle opere di culto più rilevanti nel fumetto di fantascienza contemporaneo. Concepito e realizzato da Masamune Shirow a partire dal 1989, il manga ha saputo muoversi con destrezza in una buona varietà di media, animazione in primis. Fu proprio l’adattamento animato del ’95 per la regia del geniale maestro Mamoru Oshii a consegnare ai posteri l’intero immaginario plasmato da Shirow, mettendo in scena una delle direzioni artistiche migliori della storia dell’animazione, e contribuendo a sublimare quei concetti fantascientifici che Katsuhiro Ōtomo inaugurò nel ’82 con il suo capolavoro Akira.

Di fatto è il cyberpunk il concept stilistico su cui Ghost in the Shell poggia le fondamenta e che in parte ha contribuito a fondare, contraddistinto da un mondo chiaramente distopico in cui la digitalizzazione ha raggiunto estremi di Gibsoniana memoria. In questo contesto familiarizziamo con l’ormai mitologica Sezione 9 della Pubblica Sicurezza, un’unità regolamentata dal ministero degli interni del governo giapponese il cui compito è mirato al contrasto di quelle minacce che definiremo “post-umane”, ossia non più rispondenti ai classici schemi dello sviluppo umano, bensì prossimi all’evoluzione artificiale applicata attraverso una radicale informatizzazione del corpo e della mente.

Protagonista assoluta e simbolica della serie è il Maggiore Motoko Kusanagi, un cyborg dal passato umano e dalla profonda interiorità. Lei è la massima rappresentazione dell’essenza di Ghost in The Shell, essendo innanzitutto la perfetta riduzione del significato stesso del titolo dell’opera: il Ghost, l’individualità, l’anima, la coscienza, ciò che contraddistingue la singolarità di ogni essere. Shirow calca enormemente il ruolo del cervello nella sua opera, ritenendo questa la vera fonte di ogni sostanza ed emozione, nonché l’unico elemento capace di poter identificare il concetto di mente.

Se la natura stilistica dell’opera originale  combina un’essenza cyberpunk a tonalità ai limiti del noir, in Ghost in the Shell: Global Neural Network edito in Italia da Star Comics e pubblicato da Kondansha Comics (divisione USA dell’etichetta nipponica) ci immergiamo invece in quattro storie inedite che portano la firma di numerosi autori occidentali: Genevieve Valentine e Brent Schoonover, Alex de Campi e Giannis Milonogiannis, Max Gladstone e David Lopez e Brenden Fletcher e il nostro Lorenzo Ceccotti in arte LRNZ.

È innanzitutto interessante osservare come quest’insieme di autori occidentali riescano a tradurre il retaggio del mangaka giapponese, facendo sì tesoro dei canoni da lui plasmati, ma applicando al contempo delle significative digressioni: il Giappone non sarà onnipresente, mostrando ai lettori territori piuttosto inediti, come il Nord America, questo rappresentato come il rudere di una nazione disgregata e vagamente fascista. I contesti più canonici agli archetipi di Shirow ritornano ovviamente immutati, riproponendo quelle architetture tradizionalmente associate al cyberpunk: scale cromatiche esagerate, geometrie verticali, proporzioni assurde, senza omettere i tradizionali neon.

Il tutto funge da cornice per delle narrazioni di buon livello; storie che tentano di mostrare scorci e dinamiche famigliari a Ghost in the Shell, ma allo stesso tempo differenti, come in Redbloods di de Campi e Milonogiannis. Qui osserveremo la Sezione 9 in duplice veste: da una parte il Maggiore si vedrà impegnata a risolvere l’intrigo che si cela dietro il ghost di una bambina cyborg, dall’altra invece avremo due agenti della medesima squadra che dovranno infiltrarsi in una comunità chiusa e ostile alla digitalizzazione del corpo umano. Dov’è l’elemento di distinzione? Ancora una volta nell’ambiente. I due autori vogliono conservare e omaggiare l’eredità di Shirow, ma vogliono anche espandere quanto scritto dallo stesso; lo fanno concependo quello che di fatto è una sorta di Bayou, una località fluviale americana decisamente distante dai canoni estetici del manga, ma che riesce perfettamente a mimetizzarsi nel suo universo, proponendo un contesto che non stona affatto con una narrazione che conserva ugualmente il denominatore cyberpunk.

Al contrario in Comportamento Automatico di Gladstone e Lopez, la storia ha un sentore più tradizionale ma non certamente banale. Qui l’intreccio è caratterizzato da dinamiche sequenze di azione combinate a situazioni di ponderata riflessione, tratteggiando così un techno-thriller in salsa cyberpunk davvero entusiasmante e frenetico. Un gruppo di sconosciuti cyber-soldati colpisce con precisione e rapidità; il Maggiore si ritroverà quindi costretta a indagare non solo sulla loro natura, ma dovrà anche liberare il caposezione Aramaki da questi catturato. Nel mentre, una sua vecchia conoscenza ricompare come un fulmine a ciel sereno, gettando ulteriore scompiglio su di una storia davvero ben inscenata. A Tom Clancy non sarebbe dispiaciuta.

Se Comportamento Automatico rappresenta un certo tradizionalismo, Star Gardens di Fletcher e LRNZ è un vero tributo a Mamoru Oshii. Ciò che distinse il lungometraggio di Oshii (che per quel che mi riguarda mise in sordina lo stesso Shirow) fu l’imponente attenzione preposta per l’umanità del Maggiore Kusanagi, nonché la riflessione spasmodica del concetto di anima. Seppur con delle meravigliose sequenze cinetiche, il punto focale del lungometraggio risiede proprio nella sua interiorità, proprio come avviene in Star Gardens. La sua storia è indubbiamente più articolata delle altre, mostrando anche in questo caso un complesso rapporto della nostra protagonista – e non solo – con l’interiorità nella sua concezione più digitale. Inoltre non nascondo di aver percepito per la sua intera durata, un forte sentore di rivalsa sociale nei confronti di un certo ceto costantemente immerso in frivolezze e lusso.

Ho scelto infine di conservare per ultima la storia più peculiare di questa antologia: Dopo la Fine del Ballo. Al suo interno non solo non ci troviamo in Giappone, ma non abbiamo nemmeno nulla a che fare con la Sezione 9. Una storia che parla di semplicità, di umanità. Una donna che osserva un mondo in rapido mutamento; un mondo troppo veloce per lei, tanto estranea a questo progresso massivo. Costei non è un’agente scelto di chissà quale agenzia governativa, non è un cyborg, anzi, di cibernetico pare non avere proprio nulla. Lei osserva il tutto dall’oblò di una vita semplice, quasi banale, quasi non vissuta, finché un giorno si vedrà costretta a compiere una scelta: seguire il suo cuore aiutando l’uomo che ha sempre amato, o voltarsi dall’altra parte. Da questo bivio innescherà un viaggio in ciò che resta del paese un tempo noto come Stati Uniti d’America, oggi pesantemente trasformato da una politica separatista che, come accennavo sopra, sembra riportare in auge (o forse estremizzare) un pensiero conservatore già oggi particolarmente diffuso. Una narrazione a tratti sublime che sfrutta appena qualche congettura stilistica di Ghost in the Shell, adottandone perlopiù la retorica, onnipresente e mai fugace.

La natura grafica di quest’opera è notevole proprio per la sua diversità: quattro autori, quattro stili differenti. Passiamo da uno timbro pulito, realistico e dal forte senso estetico di David Lòpez in Comportamento Automatico, a illustrazioni più sporche, graffiate e forse anche più pop di Giannis Milonogiannis in Redbloods, senza tralasciare il peculiare e meraviglioso stile del LRNZ nazionale.

Tutti gli illustratori (coadiuvati da coloristi capaci) qui riuniti imprimono il loro marchio non solo sull’ormai iconografico volto e corpo del Maggiore Kusanagi, ma anche sull’intero mondo che permea Ghost in the Shell: conglomerati urbani inauditi che si combinano fra di loro, spazi e proporzioni che fuoriescono dai limiti delle pagine, colori votati all’espressività del genere. Eppure abbiamo parlato anche di terre aride e palustri, anche queste ben definite e rappresentate: l’impressione di osservare un mondo desertico tipico di Star Wars è costante, in particolare quando osserviamo il lavoro di Brent Schoonover in Dopo la Fine del Ballo; attraverso un disegno pulito ed elegante, l’autore ci mostra la digitalizzazione di un’ambiente quasi primordiale.

Bisogna però soffermarsi obbligatoriamente (e nuovamente) sulla capacità artistica di LRNZ: l’autore romano riesce – davvero – come pochi a rappresentare un mondo vivo e pulsante. In quest’opera le anatomie dei suoi corpi rappresentano l’anello di giunzione con un certo stile orientale, sposando e replicando quei dettagli geneticamente legati al manga: corpi longilinei e a tratti androgini, ma soprattutto innocenti.

Ghost in the Shell: Global Neural Network è un’opera tanto distante, quanto vicina al retaggio di Masamune Shirow; una personale, ma anche intima traduzione da parte di questa squadra di autori occidentali. Mi sentirei di consigliarlo? Se sì anche alle vecchie guardie, o solo ai neofiti? Opere simili non solo meritano una lettura, due letture, dieci letture, ma sono essenziali per non fare del manga un qualcosa che appartiene al solo popolo giapponese e che solo un giapponese riuscirebbe a fare. Il manga è uno stile, non un fenomeno nazionalista. Infine ritengo che chiunque, dal lettore consumato al ragazzino di sedici anni, possa apprezzare e decifrare il contenuto di quest’opera a fumetti.



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