I locali che servono cibo fino a tarda notte sono pochi. Spesso i loro nomi e gli indirizzi per raggiungerli vengono trasmessi come una sorta di eredità tra le compagnie di notturni, quasi un passaggio di consegne che segna il tramonto di una generazione, costretta dalla vita a piegarsi agli orari diurni, in favore di una nuova, a cui l’età consente finalmente di godersi interamente il lato oscuro del giorno. A lungo andare, le facce che si incontrano sono sempre le stesse, un circolo di eletti che decide di rubare ore al sonno per dedicarle alla soddisfazione notturna dello stomaco, piacere quasi clandestino e proprio per questo così appagante. Da questa estate, il mio locale notturno preferito è La taverna di mezzanotte di Yaro Abe.

Le regole sono molto semplici: il locale è aperto da mezzanotte alle sette del mattino e lo scarno menù prevede una sola portata (zuppa di maiale) accompagnata da una manciata di bevande, ma su richiesta lo chef è disposto a cucinare qualunque piatto, purché disponga dei giusti ingredienti in cucina. Ah, dimenticavo: massimo tre consumazioni di alcolici a persona, un dogma da cui si può derogare solo in casi davvero eccezionali, quando l’occasione merita il giusto festeggiamento.

Se il format vi suona familiare, probabilmente è perchè vi siete già imbattuti su Netflix in Midnight Dinner, la serie giapponese ispirata al manga di Yaro Abe, ormai un vero e proprio successo trasversale in patria, di recente tradotto da Bao, la cui edizione raccoglie due dei volumi originali a cadenza semestrale.

La formula è la stessa delle serie televisiva, ma più compressa e per questo più efficace. Bastano le prime due tavole per introdurre il piatto della serata e il cliente a cui sarà associato, dopo di che la vicenda che lo riguarda si snoda nelle 3-4 pagine successive fino al serafico finale, che inesorabilmente ribalta le aspettative di tutti, lettore incluse, ma spesso non dello chef, imperturbabile nel suo punto di osservazione privilegiato.

Se ovviamente c’è il cibo in primo piano, piatti deliziosi – almeno per quanto traspare su carta – e altrettanto impossibili da trovare nel sushi all can eat sotto casa, è l’umanità di passaggio il vero fulcro de La Taverna di mezzanotte. Come in una vecchia canzone di Jovanotti (chiedo perdono, ognuno ha i suoi peccati da espiare, ma a mia discolpa posso dire che risale a prima della trasformazione in santone) la Taverna è popolata da quella gente della notte che fa lavori strani: boss della yakuza, spogliarelliste, pugili e wrestler, truffatori e scassinatori, ex poliziotti, pornoattori, ma anche semplici affamati di passaggio che entrano una prima volta e poi ritornano per le delizie notturne.

L’appetito è il grande equalizzatore di questa galleria di personaggi che Yaro Abe mette tutti sullo stesso piano: lo chef è il pescatore assopito al sole di De Andrè che sfama chiunque gli chieda un piatto, senza avanzare giudizi, purché la richiesta sia presentata con la dovuta gentilezza. Così, se in apertura di volume lo chef è a un passo dal mettere mano a un coltellaccio di fronte a uno sfrontato esponente della yakuza, frenato solo dall’intervento più garbato del boss Riu Kenzaki, destinato a diventare un personaggio ricorrente della serie, nel corso delle nottate lo sguardo dello chef si mantiene sempre equidistante da tutte le figure che affollano il suo piccolo locale, incluse quelle più atipiche che suscitano commenti tra i presenti.

Mentre il microcosmo della taverna si popola e si allarga, accogliendo al suo interno ciascun avventore notturno in un continuo scambio di ruoli tra protagonisti e comprimari, le maglie della definizione di normalità si allargano, anzi, è proprio questa barriera artificiosa e inesistente a crollare, più nel lettore, in realtà, che nella scrittura di Yaro Abe. Dovrebbe essere banale riconoscere e considerare lecito il bisogno di affetto di una spogliarellista, l’istinto paterno di un pugile a fine carriera, o il difficile rapporto con i canoni estetici di una persona sovrappeso, eppure visto che in realtà non è così banale, è un bene che tra le quattro mura della Taverna di mezzanotte questa normalizzazione sia implicita, o forse persino non necessaria.

Nonostante la corposa paginazione del volume, poco meno di 300 pagine, le notti al bancone della Taverna volano via una dietro l’altra grazie all’approccio e al tratto di Yaro Abe, sempre leggero nei toni e nei volti, caricaturali ed espressivi. Nella trentina di microstorie, che si divorano come un piatto di wurstel rossi tagliati a polipo e fritti nel pieno della notte, c’è l’essenza più pura del fumetto, quella che scorre dalle strisce di Linus di Schultz alla New York di Will Eisner, un linguaggio universale che travalica i confini e si imprime negli occhi del lettore, azzerando le distanze e le differenze culturali.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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