Nell’ultimo mese l’intero mondo dei videogiochi è stato travolto da una serie di polemiche e drammi che hanno scosso l’industria, i suoi partecipanti e i suoi appassionati in una discussione che ha messo al microscopio l’etica dei giornalisti di settore, il sessismo di chi ne fa parte, e la maturità dell’industria tutta. Come spesso accade su internet, questa discussione si è sviluppata in maniera caotica e confusa. L’unica costante è l’hashtag #GamerGate, sotto il quale sono state raccolte le polemiche.

Tutto parte da un polemica personale. Zoe Quinn, una delle menti dietro al celebrato gioco indipendente Depression Quest, un’avventura testuale che cerca di simulare gli effetti della depressione cronica, è stata soggetto di una serie di post nel blog di un suo ex fidanzato, Eron Gjoni, che l’ha accusata di averlo tradito con molte persone, tra cui un editor del sito web Kotaku. l’accusa dell’ex ha fatto il giro della rete, e ha sollevato il tema dell’eccessiva familiarità di molti giornalisti del settore con i protagonisti della scena dello sviluppo di videogiochi indipendenti. E presto la discussione è degenerata in violenti attacchi personali verso Quinn, che ha ricevuto minacce di morte, umiliazioni pubbliche, e vari esempi di stalking online e nella vita quotidiana, nonostante le accuse non abbiano trovato riscontri significativi.

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A questo punto #GamerGate ha preso due direzioni diverse e parallele. Alcune persone hanno cercato di prendere questo caso come un esempio per chiedere maggiore trasparenza alla stampa specializzata. Altri, invece, hanno preso spunto dal caso per attaccare coloro che chiedono all’industria del videogioco di diventare più matura, di trattare argomenti più complessi delle tante storie di guerra e lotte, di sperimentare diversi approcci narrativi, e in particolare di dare più attenzione al ruolo delle donne e dei gruppi di minoranza etnica nel medium. Zoe Quinn non a caso è una delle più famose esponenti di un movimento che cerca di coinvolgere le donne nel mondo del game design, e punta il dito verso la predominante prospettiva maschile nell’industria. Un’altra esponente di questo movimento (che online viene spesso definito SJW, Social Justice Warriors) è Anita Sarkeesian, autrice della serie Tropes vs Women in Video Games, finanziata con un Kickstarter di grande successo, di cui si possono trovare tre episodi di YouTube. Sarkeesian, episodio dopo episodio, critica il modo in cui i videogiochi rappresentano le donne con decine di esempi, e i video hanno scatenato l’ira di molti fan. Di nuovo, quest’ira non si è limitata a critiche e polemiche, ma si è evoluta in minacce di morte e stalking, fino a che anche l’FBI si è mossa per investigare il caso.

Questa serie di eventi ha dominato i social network per settimane. Alcuni dei protagonisti della discussione, come Jenn Frenk e Mattie Brice, hanno deciso di abbandonare l’industria per l’eccesso di abusi diretti nella loro direzione. Il caso ha anche attirato l’attenzione della stampa generalista quando Adam Baldwin, attore popolare, apertamente legato al partito repubblicano e al movimento conservatore, ha aggiunto la sua voce alla discussione, criticando i SJW e esponendo i suoi quasi duecentomila follower alla polemica.

Un mese dopo, la discussione si è espansa in altre mille direzioni: alcuni credono che titoli come Depression Quest (ma anche Gone Home) non meritino di essere definiti “videogiochi”, perché privilegiano narrativa ed esplorazione sacrificando il gameplay, e che la stampa specializzata dovrebbe dare meno attenzione a prodotti di questo tipo, sotto i riflettori per i loro contenuti “sinistrorsi” piuttosto che per la loro effettiva qualità. Di fronte alle voci che chiedono maggiore maturità all’industria, molti credono che sia una richiesta senza senso, come chiedere a Peter Pan di crescere la barba: il videogioco va bene così, non va toccato.

Per questo gruppo l’argomento della poca sensibilità dell’industria verso le minoranze, le donne e diversi orientamenti sessuali è solo una scusa per dare visibilità a giochi mediocri, puro vittimismo. Ma i video della Sarkeesian sono efficaci nel mostrare come molti videogiochi sembrino pensati per un solo pubblico, quello dell’adolescente maschio.

Alcuni dei suoi esempi possono essere forzati, il suo aproccio a volte confonde una generale mancanza di maturità con una specifica tendenza alla misoginia, ma non di meno i suoi video sono un utile contributo ad una discussione che è ancora molto giovane. I critici di questi video accusano coloro che li fanno di vittimismo e narcisismo, di sfruttare un medium di cui non sono realmente appassionati per fare soldi. Ma le reazioni isteriche verso una minoranza da parte di un folto numero di appassionati irritati da queste discussioni fa riflettere su chi si stia realmente comportando da vittima. Leigh Alexander, in un suo articolo, ha parlato della “morte dei gamer“, dove per gamer intende quello che viene percepito come il videogiocatore medio: maschio, appassionato di giochi violenti con eroi che facilitano fantasie di superiorità ed eccezionalità verso il resto del mondo, dove le donne sono spesso damigelle da salvare o eroine il cui aspetto è sospettosamente simile ad una playmate. Il sospetto è che queste osservazioni portino a reazioni violente perché colpiscono almeno parzialmente nel segno.

L’altra faccia della medaglia è quella del giornalismo videoludico. In tutto il mondo questo settore è nato grazie a editori indipendenti che hanno coinvolto adolescenti appassionati di videogiochi, e hanno creato pubblicazioni adatte ad altri adolescenti. L’industria ha capito che le riviste specializzate possono essere enormi vetrine quasi gratuite per i loro prodotti, e hanno cominciato a viziare, corteggiare i giornalisti con giochi gratuiti, viaggi esotici, regali di vario tipo. Il giocatore medio è comprensibilmente edonista, e anche una volta diventato professionista, per anni non si è occupato di etica professionale perché il settore era troppo piccolo.

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Così il legame con l’industria ha complicato l’indipendenza delle pubblicazioni: i voti dei giochi sono diventati sempre più importanti, e per evitare la possibilità che siano troppo bassi, la maggior parte dei giornalisti ha adottato un sistema di voto simile a quello scolastico, che parte da 1 per arrivare a 10, ma dove è quasi impossibile andare oltre al 7, un voto che è già quasi una sentenza a morte. Il caso di Jeff Gerstmann, licenziato da GameSpot anni fa per una recensione meno che positiva al gioco Kane & Lynch, ha dimostrato il perché della paura di molte pubblicazioni di dare un voto basso. Del rapporto incestuoso di un’industria che avrebbe bisogno di giornalisti con una spina dorsale più solida.

E negli ultimi anni questo rapporto è diventato molto più complicato per via della sempre maggiore importanza dei piccoli sviluppatori indipendenti, che spesso diventano amici dei giornalisti, o che i giornalisti stessi possono finanziare partecipando alle campagne di crowdfunding su Kickstarter o Patreon. Questo tipo di conflitto di interesse può sembrare innocuo per alcuni, ma ha conseguenze reali e problematiche sul modo in cui i giornalisti e l’industria interagiscono tra loro.

È tutto conseguenza di come il giornalismo videoludico ha vissuto gran parte della sua esistenza spalla a spalla con la rete, uno strumento che permette a chiunque abbia un computer di recensire pubblicamente un prodotto. E oggi più che mai capire la differenza tra un professionista e un’appassionato è molto complicato, perché è spesso inesistente. Per fare un esempio di un’industria che condivide alcuni degli stessi problemi, quella del cinema, e il giornalismo che se ne occupa, questo ha quanto meno avuto quasi un secolo per evolversi senza dover fare conto con questa realtà, e ha sviluppato un sistema di regole più coerente, almeno in parte.

Il tornado gamergate, oltre a confermare la natura caotica di internet e dei suoi angoli più selvaggi come 4Chan e Reddit, potrebbe riuscire ad avere qualche risultato positivo. Sempre più persone si porranno interrogativi sul modo in cui le donne e le minoranze sono rappresentate nei videogiochi, e alcune testate giornalistiche come Kotaku e The Escapist stanno rivedendo le loro regole etiche, per creare maggiore chiarezza riguardo ai rapporti tra giornalisti e sviluppatori, le loro attività sulle piattaforme di crowdfunding, la partecipazione a tour promozionali, e il modo in cui ricevono copie gratuite per recensire nuovi arrivi.

La vera questione è se il futuro del giornalismo videoludico possa andare verso un approccio più “oggettivo” alla critica, come molti appassionati vorrebbero, o se sia meglio piuttosto adottare un approccio ancora più personale alla critica, come fa con grande successo GiantBomb, un gruppo di giornalisti che fa della loro personalità e dei loro gusti personali una garanzia di trasparenza.



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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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6 Comments

  1. Salve, vorrei gettare luce su alcune cose poco chiare, visto che credo saranno molti andrò per “punti”:

    1) i 5 uomini di Zoe Quinn non erano 1 giornalista e altra “gente a caso”, ma 1 era un giudice di un contest della quale il suo gioco era finalista, 2 giudici di un’altro contest che ha in seguito vinto, ed il suo PR. Inoltre ha sabotato il contest per inserire donne nel gaming come produttrici di TFYC, le donazioni al suo gioco destinate al National Suicide Prevention Hotline non solo non sono arrivate ma gli stessi non ne erano a conoscenza.

    2)Anita Sarkeesian ha annunciato di aver contattato l’fbi, il problema è che il giornalista Milo Yiannopoulos ha fatto domande sia all’fbi che alla polizia, ma entrambe la agenzie hanno risposto di non essere a conoscenza di denuncie da parte di anita. oltre a questo la stessa sembra sia stata bannata da reddit perchè è stata scoperta con diversi accont mesi prima del Gamergate a mandarsi minaccie di morte da sola…

    3)un caso di doxxing ai danni della Quinn (ovvero rendere pubbliche informazioni personali) il problema è che i dati erano fasulli e “l’hacking” del suo account dal momento in cui è iniziato al momento in cui è finito e lei ha riottenuto il suo account di twitter è stato di non più di 5 minuti.

    4)passiamo ad un “White Cis Male” Phil Fish, il suo gioco FEz è stato finanziato da 7 persone che in seguito lo hanno anche giudicato nella indie game festival e alla indie cade festival http://gamesnosh.com/fez-investors-outed-judges-2011-igf-award/

    5)Milo Yannoupoulus ha scoperto e rilasciato questo articolo http://yiannopoulos.net/2014/09/19/gamejournopros-zoe-quinn-email-dump/ in cui i vari giornalisti di varie “testate” coinvolti nel caso di corruzione sono daccordo su cosa parlare, chi promuovere (giornalisticamente parlando) chi ignorare.

    6) minaccie e bullismo vengono per la maggior parte dai SJW come si può notare qui http://gamergateharassment.tumblr.com/ (hanno addirittura minacciato di morte un ragazzino di 10 anni)

    Chiedo venia per il tempo e lo spazio rubato :)

    1. No, grazie a te per il contributo; questo è un caso complicato, avere più informazioni e punti di vista possibili è una buona cosa per i lettori :)

  2. Emilio alcune precisazioni:

    La grande maggioranza della gente che sostiene #GamerGate:

    – ha sincere preoccupazioni per lo stato del giornalismo
    – sostiene l’uguaglianza e l’inclusività
    – cerca di moderare come può chi usa il tag in modo pericoloso.

    I giornalisti accusati di conflitto di interessi hanno risposto demonizzando e sfruttando quando accaduto alla Quinn e alla Sarkeesian.
    #NotYourShield è nato per mostrare loro quante persone appartenenti a minoranze sostenevano la campagna (su twitter venivano offesi dagli anti-gamergate dandogli dei fake o peggio ancora) http://www.youtube.com/watch?v=SYqBdCmDR0M

    Molti giornalisti, che dovrebbero avere un minimo di contegno, hanno offeso ripetutamente chi li criticava o addirittura generalizzato un’intera categoria di persone, quella dei videogiocatori, come ha fatto l’Alexander nel suo articolo discriminatorio e offensivo.
    Per questo Gamasutra è finita nel mezzo e Intel ha tolto la pubblicità.

    Il tutto è nato dalla Quinn ma è stata l’ennesima goccia che ha fatto traboccare il vaso, i problemi sono vecchi, solo che questa volta la gente si è arrabbiata.
    Preoccuparsi se si viene a sapere che un giornalista va a letto con una sviluppatrice è normale. I giornalisti seri rendono pubblici eventuali interessi che hanno nell’argomento trattato(non c’è bisogno di entrare nei dettagli)
    Il problema è esploso quando a queste domande si è risposto negando l’evidenza e censurando.

    In più gli articoli di bassa lega “gamers are dead” hanno fatto esplodere la rabbia.
    Ed è normale.

    Dai un’occhiata a come molti giornalisti e sviluppatori si sono comportanti in questa questione e vedrai che sono al livello di molti troll di internet.
    Il fatto è che pochi troll di internet non possono rappresentare milioni di videogiocatori. Giornalisti di peso che si comportano in quel modo in ambito lavorativo sono un grosso problema.

    Prova a vedere come sarebbe questa questione nel mondo reale con il governo al posto dei giornalisti e della gente che protesta per una causa che ti sta a cuore al posto dei videogiocatori, vedrai che cambierai idea.

    Il problema di Gone Home nasce dal fatto che uno dei primi a recensirlo, Polygon che gli ha dato 10, ha giornalisti che da anni producono un podcast insieme ad alcuni degli sviluppatori. E’ stata resa pubblica questa cosa nella recensione o no? Indovina.

    Molte delle critiche che si fanno su come viene trattata la social justice nei videogiochi si concentrano sul fatto che venga forzata.
    E’ purtroppo è così da alcuni anni. Di articoli forzati ce ne sono a bizzeffe: “Mario Kart non ha persone di colore” “Assassin’s Creed non ha un personaggio femminile online” e posso andare avanti a lungo.

    Poi ci sono alcuni che proprio non vogliono la politica nei videogiochi ma sono la minoranza e comunque è un’opinione che va rispettata se espressa in modo civile.

    Saluti.

    1. Visto solo ora; credo che “modo civile” sia la parola chiave. Concordo che il giornalismo videoludico abbia moltissimi problemi, e che molte reazioni della stampa siano infantili e poco professionali, ma questo non giustifica le aberrazioni che si vedono in questa discussione.

      Da una parte, il problema è che per quanto si possa essere in disaccordo con vari giornalisti, loro stanno firmando i loro pezzi, si prendono responsabilità di quello che dicono. Molti degli attacchi online arrivano in forma anonima, è un modo di discutere non particolarmente corretto.

      Inoltre, come sempre, l’idea di un “leaderless movement” è fondamentalmente sbagliata. Per cui anche i moltissimi che hanno usato GamerGate in buona fede di trovano a supportare agghiaccianti abusi. Non vedo che senso abbia continuare a spingere questo movimento quando è facile creare qualcosa di alternativo.

      Come spesso capita sono molto d’accordo con Jeff Gerstmann, che mi sembra centri in pieno il cuore del problema. http://www.giantbomb.com/articles/letter-from-the-editor-10-17-2014/1100-5049/

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