Booker DeWitt è un duro, un investigatore privato che sa il fatto suo. Del resto, da buon ex militare con troppi fantasmi nella coscienza e una montagna di debiti sulla spalle, ha il profilo giusto per essere il “perfetto bastardo in cerca di redenzione”. Passione pericolosa la sua, gioco d’azzardo, vizio corrosivo. È tempo di pagare, DeWitt.
È tempo di infiltrarsi a Columbia e recuperare Elizabeth, ragazza nata e cresciuta in questa megalopoli che solca le nubi nell’anno domini 1912.
Cinque anni di sviluppo per Ken Levine. Un lustro di peripezie per questo game designer e il suo team, che senza dubbio hanno contribuito a ridefinire l’approccio alla narrazione videoludica, suggellando capolavori quali System Shock 2, Thief: The Dark Project e il primo Bioshock, crogiolo di filosofia oggettivista, gameplay emergente e level design narrativo. Un’opera che continua ad evolversi concettualmente in questo terzo episodio e che vede Levine riversare le meccaniche-fondamento della struttura originaria in una nuova ambientazione, vetta più alta della sua ambizione artistica.
Dagli abissi di Rapture si passa così agli orizzonti di Columbia, città la cui peculiarità di fluttuare nel cielo rappresenta la più vivida ed estrema metafora del sogno americano.
Il fanatismo religioso, dogma crudele del profeta Cumstock, e la xenofobia dilagante, figlia della segregazione auto-indotta, sono metastasi dormienti portate in superficie dall’operato di DeWitt, falso pastore in un gregge di lupi. Ben presto il caos si riverserà sulle strade facendo esplodere una lotta armata e furente, in cui Booker ed Elizabeth avanzeranno per la propria salvezza, districandosi tra universi paralleli e realtà compromesse.
Questa è giusto la copertina di Bioshock Infinite, la vetrina della sua esperienza. Una volta varcati i confini, sarete rapiti per circa 10-13 ore da un rompicapo narrativo, coinvolgente e complesso. Esteticamente siamo davanti a un’opera d’arte; colori ovunque, regalità che abbonda e tanti saluti ai claustrofobici condotti di Rapture, in un cartone animato che mette in scena un sogno in caduta libera.
Dal punto di vista ludico non abbiamo grosse differenze di design rispetto al passato. Un classico fps in cui le armi si accompagnano a tonici mutageni dall’aspetto analogo ai Plasmidi di Rapture, qui chiamati Vigor e alimentati dai Sali. I combattimenti sono dinamici e frenetici, giovati da un’ambientazione ai limiti dell’agorafobia dove vige una maggiore attenzione alle meccaniche di genere. Se la giocabilità ci ha guadagnato in velocità, la tensione esplorativa è venuta in parte meno. Ciò è dovuto alla presenza costante di Elizabeth, figura fantasma durante gli scontri a fuoco ma anche angelo custode grazie alle scorte di medikit, munizioni e sali che ci lancerà quando saremo a corto di uno o degli altri. Per quanto il suo aiuto acuisca il rapporto con Booker (e con il giocatore) in un crescendo di stima e affetto reciproco, il fattore sfida era forse più incisivo in passato. Non abbiamo infatti la solitaria disperazione del protagonista dinanzi a colossali palombari dal nome Big Daddy, signori indiscussi di Bioshock.
Sebbene Columbia possa contare su un parco creature variegato, fitto di bastardi inVigoriti, enormi Handyman e Patrioti Motorizzati formato George Washington, niente riesce a competere per carisma con i custodi delle Sorelline, monumentali presenze dei capitoli precedenti. Ogni scontro è sì una tempesta adrenalinica, ma ciò che manca è la forza “shockante” delle origini a favore di un ritmo d’azione più serrato e distribuito, ancorato alla tradizione.
Colonna vertebrale di tutta la produzione, la struttura narrativa si svela poco per volta grazie ai voxafoni (vinili equivalenti agli audio-log) e ad una messa in scena perfetta, sostenuta dal sonoro d’epoca che instilla pathos in ogni area visitata. Tutto è stato rifinito ed elevato parimenti alla vastità dell’ambientazione, consacrando l’utilizzo della detective stories e della narrazione embedded, come artefici dirette del coinvolgimento del giocatore.
Sarà facile affezionarsi ad Elizabeth, così genuina nelle espressioni e nelle movenze, e in grado di vantare una raffinata rappresentazione di fragile donzella, con tanto di sviluppo personale come nei migliori romanzi di formazione.
Meritevole di menzione è la capacità della ragazza di creare squarci spazio-temporali, che all’occorrenza sono in grado di spawnare armi e ripari. Una meccanica di facile abuso durante i combattimenti e che lascia un po’ di rammarico per la superficialità con cui è stata utilizzata. Limitata infatti a poche eccezioni narrative per doveri d’intreccio, avrebbe potuto marcare ulteriormente l’autorialità del giocatore.
Le Skyline, ovvero le rotaie aeree che attraversano la città viste in ogni trailer, risultano più un espediente di scena che una aggiunta rilevante al gameplay.
In ogni caso, la bellezza di quest’opera travalica il mero giudizio critico di meccaniche e tecnica, risiedendo piuttosto nelle radici narrative e contenutistiche che ne colorano la realtà, poiché, seppur vero che la struttura FPS si scontra con un anacronismo di fondo, i temi trattati e l’Arte volta a sostenerli portano Bioshock Infinite a battere buona parte della concorrenza (non tutta, Dishonored docet).
Dove Booker ed Elizabeth vi cattureranno con un’avventura che vale senza dubbio il biglietto di sola andata. Oltre l’infinito e senza ritorno.
Benvenuti Pellegrini.
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