Come un fulmine a ciel sereno è stato annunciato il quarto album degli Arcade Fire, la band più completa e potente del momento, quella che Bowie definisce fantastica e i Coldplay la migliore in circolazione, quelli che se non sai chi sono devi correre ad ascoltarne le glorie. Già: questo ensemble formato dai canadesi (Win Butler, Régine Chassagne, Jeremy Gara, Tim Kingsbury, William Butler e Richard Reed) con base a Montreal, album dopo album, ha lasciato a bocca aperta i fan e non solo, coinvolgendoli con sonorità un po’ new wave, un po’ folk-rock e soft-electro, mettendo d’accordo mainstream-addicted e indie-bisognosi.
Non solo: è riuscito a conquistare persino le sfere della tv italiana (notoriamente restia alla musica underground in favore di soundtrack per serie, film e programmi tv che trascendono dalla musica appoggiandosi morbidamente sugli allori dell’italianità pop decaduta e forte di baggianate cosmiche e rime baciate confezionate con lo stampino – ndr), tra la sigla di Otto e Mezzo (La7, con Lilli Gruber) e Quelli che il Calcio nel 2011 (Rai2). Ok direte voi, ma ad ascoltarli bene il passato incombe nella musica dei nostri ottimi canadesi, ma si tratta di miscele sonore così ben amalgamate e imbastite da costruire un genere tutto nuovo, fiero di un’originalità elaborata tra rock duro e orchestra, pop sofisticato e angosciosi ricami dark da far impallidire il Robert Smith degli anni 2000.

Una band che ben coordina voci maschili e femminili, con Régine e Win che si unirono nel 2003 con altri compari d’arte per formare la band e splittare due anni dopo l’omonimo Ep che aprì le danze a quel Funeral (datato 2004) che con arguzie sonore e genialità indie catturò l’attenzione della critica musicale tra le voci intense nel crescendo musicale di Neighborhood #2 (Laika) e la ballata deliziosa di Une Année Sans Lumière o Neighborhood #4 (7 Kettles): un capolavoro delizioso e barocco, dove la ricchezza sonora e le malinconie erranti scivolano tra tristezza ed esaltazione della vita e del mondo (e il disco fu ispirato proprio alle numerose scomparse di vicini dei membri della band durante le registrazioni). E da lì il tour, locale, mondiale, addirittura in supporto del Vertigo Tour degli U2, con tanto di mezzo milione di copie vendute negli States, Cantautori dell’Anno 2006 ai Juno Awards, e le prime nomination ai Grammy. E così tra voci alternate, chitarre melanconiche, bassi picchianti, batteria rocciosa, archi, xilofoni, sintetizzatori e fisarmoniche, per le registrazioni la band si allargò a ben 15 elementi, e Crown of Love echeggiava agli Echo and the Bunnymen, con un esaltante crescendo finale degno di Bono e soci ai tempi d’oro.

Altissime aspettative ci furono tre anni dopo all’uscita di Neon Bible, secondo duro lavoro della band che in questo lasso di tempo prese una piccola chiesetta abbandonata del Quebec per farla diventare un novello studio di registrazione. Seconda posizione nelle classifiche USA e Uk e consensi da ogni dove, grazie ad un rock ancora più permeante e filtrato da testi epici rivolti stavolta alla Guerra in Iraq o alla fine del mondo. Più ispirati, rabbiosi e determinati di prima, gli AF abbracciano così volutamente il mainstream raccontando del mondo anziché solo dell’intimo, sconvolgendo con l’impetuoso ed adrenalinico climax ascendente, recitato e cantato, sviolinato e amorevolmente pauroso di Intervention e la spumeggiante e oscura Black Mirror, e con quella No Cars Go contenuta nell’ep di debutto e qui rieditata. E a seguire la comparsata ad Ottawa on stage con Bruce Springsteen, e la registrazione di Lenin per Dark Was the Night per Red Hot Organization a sostegno della lotta all’HIV con ben 300.000 dollari arrivati dalla band.

Bastavano queste due preziose perle a far elevare gli AF a band già storica, che nel mare di mordi-e-fuggi-band esaltanti agli esordi e meno creative dopo, segnava la propria firma nell’Olimpo della musica, per ispirazione ed originalità, se non fosse che i nostri completarono il terzetto con The Suburbs, datato 2010. Un terzo album che è seguito alla campagna della band a sostegno di Obama, prodotto dalle stesse firme del precedente, e ancora più vicino al pubblico, secondo critica e fan, per quelle sonorità più catchy e fruibili al punto da essere utilizzate anche da Google Chrome (per l’esperimento interattivo The Wilderness Downtown), con la duplice chicca di Half Light I e II (No Celebration), tra bagliori new wave e elettricità lampeggiante, come nel caso del pop ‘80s di Modern Man e del crescendo corale di We Used To Wait. E largo ai premi definitivi: Miglior Album del 2010, Album Alternative e Performance Rock ai Grammy, Miglior Band Internazionale ai Brit Awards e una marea di altri riconoscimenti che hanno ufficialmente, e per l’ennesima volta, consacrato la band.

Ora è uscito il singolo Reflektor, che anticipa e aprirà l’omonimo album in uscita a fine mese. Un video interattivo firmato da Vincent Morisset e un corto di 7 minuti in black and white (ovviamente) diretto niente meno che da Sua Maestà Anton Corbijn (con i nostri che si muovono vestiti di enormi teste di cartapesta), per un brano dove l’alternanza vocale inglese-francese/uomo-donna, il pop, la wave, il rock e la ball abilità si incrociano in meditazioni su oscurità e bagliori, spiritualismo e redenzione. E che dire del cortometraggio di 20’ diretto niente meno che da Roman Coppola ad accompagnare l’uscita di Here Comes the Night Time, We Exist e Normal Person, tratto dalla performance dei nostri beniamini per promuovere il nuovo disco durante l’ultimo sabato di settembre al Saturday Night Live, con tanto di comparsate di mostri sacri del cinema e della musica, da James Franco a Zach Galifianakis, Bono, Ben Stiller e un brillante Michael Cera. Consacrazione.

Reflektor è stato registrato ai DFA Records di New York, fondati da James Murphy (LCD SoundSystem), che auto-dichiarandosi onorato di aver collaborato con la nostra band, aveva anche rivelato la collaborazione degli stessi con il Duca Bianco David Bowie, proprio per il brano che da il nome all’album (cosa di cui si sa con certezza ben poco, ma provate ad ascoltare gli ultimi attimi del brano – ndr). Metteteci un simbolo a richiamare il titolo disco che ricorda i giochini dei bimbi di decenni orsono (e facile al ricordo, schematico, brillante nella sua semplicità), una copertina che ricorda i masterpiece dei Joy Division, con richiami all’arte classica e all’oscurità, e il fatto che si tratta di un doppio album di 13 canzoni complessivamente, la fresca conferma della collaborazione alla soundtrack della nuova pellicola di Spike Jonze Her e l’ancor più recente cover di Games Without Frontiers di Peter Gabriel per l’album tributo al grande musicista, e Reflektor già è annunciato un mix di coordinate poliedriche dove riflessi caleidoscopici del passato glorioso della storia della musica assumono le sembianze di un’ ultramodernità scintillante a dir poco. “Con quest’album ballerete tutti”, hanno dichiarato mesi fa. Siamo pronti.



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