Di loro si sa tutto.
Del resto stiamo parlando della band regina del grunge nata nella florida,intimista, rabbiosa e piovosa Seattle nel 1990, che a suon di album di successo ha conquistato tanti fan, tra hit riempi-pista e scuoti-stadio, fascinazioni hard rock e cantautorali, influenze ad entrare e uscire, prelibatezze sonore, sfavillii polistrumentali e trasversali featuring, da Ben Harper fino ai mitici Who.

E poi lui, Eddie, il leader che trafigge gli animi con quella vocalità piena e calda, capace di svariare senza soluzione di continuità tra urla iraconde e parole appena sussurrate.
Dei Pearl Jam, i meno convinti sicuramente avranno pensato di riuscire prima o poi a parlare male, col passare dei dischi e dei decenni, immaginando anche di puntare il dito contro la band magari per esser svoltata nel “troppo pop” o nell’ “eccessivamente indie”.
Invece mai i nostri sembrano aver prestato il fianco alle più feroci e attente critiche, convincendo di contro generazioni su generazioni, tra album azzeccati e live memorabili.

Eccoci qui, per l’ennesima volta, a ragionar di questi rocker onesti e tenaci, vincenti e furenti, che anche con questo inedito Lightning Bolt uscito ad inizio ottobre, sono riusciti a confezionare un piccolo gioiello contemporaneo, pur cambiando decisamente appeal e tono. Più saggi, più pagati, più maturi. E soprattutto, forse, più consapevoli.
Così, dopo i tributi alla pietra miliare “Ten” a vent’anni di distanza dalla sua release, i Pearl Jam tornano con un lavoro, il decimo in studio, puntualmente cesellato tra acrobazie grintose (vedi il singolo Mind Your Manners), una compostezza ragionata e voluta, che sembra ben calzare agli Eddie, Mike, Stone, Jeff e Matt di oggi, a partire dall’artwork creato da Don Pendleton per la copertina dell’album.

Ok, bravi come al solito. Ma la musica?
“Un disco alla Pink Floyd”, aveva detto McCready mesi fa: promessa mantenuta, perché sebbene di psichedelico o sperimentatore non ci sia poi molto, la regalità donata ad ogni brano di Lightning Bolt è una manna dal cielo di questi tempi e ben si accosta all’eleganza di quei signori sopraccitati.
La “vicinanza” comincia dalla titletrack, un po’ massiccia e un po’ pop, passa per le forti influenze della poetica e dello stile di Eddie, che qui regnano sovrane (c’è persino la rivisitazione della ballata Sleeping by Myself del suo disco solita Ukulele Songs), per terminare tra la dolcezza di Yellow Moon, che ricorda i capolavori della colonna sonora di Into the Wild, e la delicata Future Days.

C’è spazio anche per il blues più graffiante e dal sapore di whiskey, con Let the Records Play, o per la tipicità sonora del gruppo ben espressa da Swallowed Whole e My Father’s Son. Basta ascoltare l’oscura Pendulum per capire che i nostri non ambiscono a calcare ulteriori itinerari musicali pur restando sul loro selciato, con un’eleganza tale da far rabbrividire tanti compagni di classifica.

Che dire ancora? Ah sì: li aspettiamo live. Per ora, ci basta il disco…



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