L’ambizioso Abel è imprenditore in una New York anni ’80 funestata da criminalità e alto tasso di corruzione: l’azienda che l’uomo gestisce, e che definisce senza esitazioni “onesta e pulita”, viene accusata di corruzione. Lui, però, è pronto a tutto per difendere la sua attività dagli attacchi esterni, che si fanno via via più pesanti, tra le accuse di frode ed evasione fiscale alle concrete minacce, fino alle intrusioni di estranei armati nella sua lussuosa abitazione.
A most violent year è emotivamente claustrofobico quanto i due precedenti lavori di J. C. Chandor: Margin Call (che lo era anche visivamente, tutto compresso nell’esplodere della crisi della borsa), e All is lost – Tutto è perduto (dove Robert Redford vagava alla deriva in un survival movie muto, a eccezione del prologo). La sua terza opera si avvicina di più al debutto sopraccitato: è altrettanto parlato, pessimista e calato nel regno ottenebrante del denaro, del possesso, di un capitalismo che diviene il Verbo per coniugarsi al quale chiunque è disposto a vendere la propria dignità, per “non restare fermo sempre nello stesso posto”.
Ancor più che la risoluzione di Oscar Isaac (attore sempre più bravo e sempre più sottovalutato: altra nomination ingiustamente mancata dopo A proposito di Davis dei Coen) svetta l’irruenza elegante e ardita di Jessica Chastain (che non sbaglia un’interpretazione: non una mossa, un palpito degli occhi, una lacrima rabbiosa), capace di sparare a notte fonda a un cervo erroneamente investito dalla loro auto come di irrompere negli affari del marito per risolverli, per proteggere le figlie. Ognuno, insomma, è pronto a sporcarsi le mani di sangue per proteggere la propria proprietà, sia essa il lavoro o la stabilità familiare; chi non sta al gioco dei duri è destinato a perdere rovinosamente, chi esce dai ranghi soccombe.
Un cinema dai connotati europei e fortemente politico quello di Chandor, di una freddezza ormai introiettata nelle dinamiche di vita e dell’interesse economico che muove le azioni, le relazioni interdipendenti, il campo pubblico, privato, lavorativo. I personaggi sono estranei alle emozioni, a uno spessore introspettivo che vada al di là delle mosse fattuali programmatiche; sono burattini delle loro stesse intenzioni, di uno schema ben preciso, del capitale che governa il mondo. Chandor calibra bene la narrazione nei pochi momenti concitati, benché la dilatazione eccessiva (più di due ore) e un’uniformità di messinscena (volutamente) senza sussulti privino il film di forza e immediatezza, adombrandolo spesso di piatta opacità.
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