Il 10 marzo 2015 si è conclusa all’Estragon di Bologna la prima sezione del tour che i Verdena dedicano a Endkadenz, opera ancora una volta mastodontica che il gruppo programmaticamente ha suddiviso in due volumi, a rendere la fruizione più maneggevole. C’eravamo, e l’impressione è quella, come sempre, che i Verdena siano un gruppo antico in ogni loro aspetto, dal lavoro sui pezzi in stato embrionale fino all’immagine e al marketing che ruota loro attorno. In vent’anni di carriera mai uno spostamento di ellisse verso un qualcosa che fosse extra-musicale. Persino le interviste o i servizi fotografici paiono fatiche che con l’essere in una band, l’esserci, poco hanno a che fare.

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I Verdena, arrivati allo status quasi negato di band “mainstream” all’interno di una giungla, quella del rock italiano, che da dieci anni a questa parte è stata sempre più di nicchia, sono un gruppo scevro da sovrastrutture. Aberrano pose, le frasi effettate, le affettazioni troppo caricaturali, l’essere “cool” di tanta gente indie o finta tale. Semplicemente sono, e in modo quasi autistico. Operativamente, dal 1995 fanno la stessa identica cosa: scrivono centinaia di pezzi per anni rinchiusi in un pollaio ribattezzato a studio di registrazione dal nome filo-anglosassone (l’Henhouse di Bergamo), ricoperto da foto di gruppi e oggetti casuali, tanto quanto loro stessi. Registrano, si auto-producono, ogni tanto accolgono l’incursione straniera di qualche monumento alla musica italiana (Agnelli, o Pagani, a esempio), si piegano come animali ammansiti alla promozione, e finiscono nella dimensione live, costretti quasi alla comunicazione. Eppure, questo “suonare per suonare”, tendendo a un perfezionismo ossessivo, risulta paradossalmente potente nella sua asciuttezza espositiva. La storia dei Verdena è quella di una stratificazione esponenziale e inversa allo stesso tempo.

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A ogni disco, si aggiungono le strumentazioni, gli influssi enciclopedici da cui attingere, l’impianto strettamente tecnico, e al contempo si semplificano le ispirazioni, si fanno acustici e primitivi, con Luca Ferrari che alle ospitate radiofoniche, non sapendo che fare mentre Alberto suona il pianoforte, picchia oggetti a caso sulla tavola armonica. A sottolineare, sempre, un disinteresse verso tutto ciò che è precostituito, ammiccante, compiaciuto. Con Solo un grande sasso (2001), dopo un inizio smaccatamente post-punk e così ingabbiati nella frenesia post-Nirvana di allora, si aggiungono mellotron, piano rhodes e wurlitzer, fino al pianoforte onnipresente di Wow (2011), che respira di influenze pop, tirando dai Beach Boys a certo cantautorato italiano di Endkadenz Vol.1. Quello che preme ai Verdena è ricreare una cortina sonora spesso inestricabile di impasti psichedelici, che però mai abbandona l’impianto melodico.

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E la vocalità, così perturbata, nei live viene letteralmente masticata dal noise in un richiamo del tutto shoegaze. I testi, poi, si beano del loro non-sense acclamato che tira fino a una significazione autonoma e ampiamente evocativa. Il cambio di marcia avvenuto nel 2011 tramite “l’opera rock” che è Wow pare, tuttavia, arrestarsi con il nuovo lavoro. È il complemento naturale, suo prolungamento e restrizione del cerchio, in un’ovvietà che certo non spaventa ma che lascia presagire a un inevitabile e urgente bisogno di rivoluzione. Sempre sguazzando in una fertile grazia che ammanta l’ultimo disco di viaggi inconsci e pellegrinaggi extra-corporei onesti e fragili. La poetica post-ermetica di Alberto riesce a penetrare nel suo analfabetismo e a consegnarsi disincantata in tutto il suo tasso di alchimia emotiva.

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Come un fermo immagine, Alberto, Luca e Roberta non sono cambiati, sembrano vivere in sovrappensiero perpetuo, persi nel loro input a produrre scatole sonore per respirare. “Si va a un concerto e ci si perde”, letteralmente: capita di incontrare Luca dopo un soundcheck pomeridiano prima di una tappa del tour, che spaesato circumnavigava l’edificio alla ricerca dell’entrata.



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